Durante gli ultimi mesi aveva sognato di morire, ed era corsa ogni volta urlando nel letto dei genitori; nell'ultimo sogno, si era alzata dalla bara in chiesa per andarsi a sedere accanto a suo padre.

Nels pregò che i sogni non fossero ricominciati.

«Andiamo», disse gentilmente, chinandosi un po' in avanti. «Andiamo, Abbey. Puoi raccontarlo a me e all'albero. Siamo vecchi amici, noi tre».

Abbey sbuffò. Era pronta a dire di no, poi cedette e cominciò a strappare dei fili d'erba accanto alle cosce. «Pensavano che fossimo delle provinciali», disse. «Una sorta di snobismo alla rovescia, credo. Stupida gente della città, se sai quello che voglio dire. Prima hanno cercato di farci ubriacare, poi hanno tentato qualche approccio antiquato. Avevamo lasciato la nostra macchina a casa di uno di loro... quella di Frank... È lui quello che venne a presentarsi in modo tanto carino, ricordi? Avevamo lasciato la macchina a casa sua. Prima che ritornassimo da lui, eravamo un disastro. Ma...», e sorrise apertamente, all'improvviso, «la nostra virtù era, per il momento, signori e signore, ancora intatta. Cioè, parlo per me». E il suo sorriso divenne una risata.

Nels sentì il calore che gli saliva da sotto il colletto, vide che lei aveva riconosciuto la sua rabbia protettiva e tossì per mantenersi calmo. Allungò le mani alla cieca sopra di sé e tirò finché le sue dita ebbero raccolto una manciata di foglie nel palmo. Le arrotolò in un cilindro, le premette, le arrotolò di nuovo, e sentì l'umidità che veniva rilasciata; se le strofinò sulla pelle. Era una sensazione buona e insolita. Quando alzò lo sguardo, vide che sua figlia lo fissava.

«Però stai bene», disse lui goffamente.

«Se mi stai chiedendo se devi comprare un fucile, la risposta è no». Si contorse finché non si mise in ginocchio, prese le foglie sminuzzate dalla mano di lui e se le mise sulle guance, sul collo, sulla fronte, con gli occhi chiusi. Poi fissò l'albero e quindi di nuovo lui. «Papà», disse, «se solo sapessi quanto sembri naturale, seduto qui».

«Ah!», sorrise lui. «Il primitivo che c'è in me, ecco cos'è. Un tutt'uno con la terra e tutto il resto».

«No», disse lei, aggrottando la fronte mentre rifletteva. «Non proprio, ma è giusto per te stare qui».

«Come non è giusto stare in casa?».

Lei annuì, scosse la testa, e si alzò. «È più come la mia stanza a casa. Io le appartengo più di qualsiasi altro luogo. Tu, però... Penso che appartieni a questo posto».

«Così lascerò il mio lavoro e giocheremo alla fattoria per il resto delle nostre vite».

Lei sorrise, si accarezzò i jeans, e si lisciò la camicia a pieghe sul seno. «Papà, che faresti se io mi sposassi?», chiese.

«Piangerei un sacco e augurerei buona fortuna al ragazzo. Molta».

«Mi lasceresti? Mi lasceresti andare?».

Lui ingoiò rapidamente la battuta che gli veniva, tirò su con il naso, e aprì le mani in un gesto impotente. «Dovrei», disse tranquillamente. «Ma sono sicuro che non vorrei».

«Nemmeno io», bisbigliò lei, poi si inginocchiò e lo baciò su una guancia. «Ti voglio bene, papà. Non lo dico abbastanza, lo so, ma ti voglio bene».

Nels la guardò mentre se ne andava. E la tristezza che all'improvviso lo colse aumentò, quando la sua mano toccò distrattamente i capelli tagliati corti, di un biondo che stava diventando grigio. "Questo", pensò, "è ciò che il New England fa per te, ragazzo: autunno in primavera". Sapeva che c'era una lacrima nel suo occhio sinistro, ma si rifiutò di darle peso asciugandola. Ben presto, troppo presto, fin troppo presto, se ne sarebbe andata e lui si voltò, da seduto, per fissare il tronco, per seguire i suoi tortuosi disegni, e alleviare la mente con uno stato simile alla trance. E non fu se non quando un grido fluttuò attraverso il campo, che ne uscì, si rimise in piedi rigidamente, e si avviò trotterellando verso la fattoria. Vide Grace che stava nel portico posteriore agitando le braccia, e allora il trotto divenne una corsa, e la corsa un lampo quando la sua primogenita saltò gli scalini e corse verso di lui. Piangeva quando cadde tra le sue braccia, singhiozzando di una storia ingarbugliata sui tre uomini che avevano incontrato la sera prima; avevano messo con le spalle al muro lei e Bess in un ristorante, insistendo finché le ragazze si erano spaventate, seguendole quindi fino alla svolta della strada principale e sedendosi lì nella loro decappottabile, in attesa.

«Darò uno sguardo», disse lui, mentre la riconduceva a casa. Kelly non era in cucina, ma lui udì dei suoni attutiti provenire dal piano di sopra e capì che era occupata a confortare la più giovane. Grace tirò su col naso rumorosamente e prese in prestito il suo fazzoletto. Normalmente, se fosse stata Abbey o Bess, lui si sarebbe istantaneamente calato nel ruolo del padre consolatore che assumeva in caso di ginocchia e gomiti sbucciati, incubi e temporali. Ma Grace aveva vent'anni, era una donna, e non si turbava facilmente. Quegli uomini dovevano essere stati più che semplicemente volgari, più che solo scherzosamente minacciosi. Mise sua figlia nella poltrona del soggiorno e si infilò la sua giacca a vento.

«Resta qui», disse. «Versati un brandy e accendi il fuoco. Farà freddo stanotte. Maggio, nel Connecticut, è più simile a marzo».

Attese finché lei ebbe preso la caraffa sulla credenza, poi, senza fretta, uscì fuori e scivolò dietro il volante della macchina. Le chiavi erano ancora nell'avviamento, per cui accese il motore, fece il giro del vialetto ovale che aveva una betulla al suo centro, e guidò per il mezzo miglio che conduceva alle colonne di pietra che fiancheggiavano l'entrata della strada. Frenò, scese, e giunse camminando nella strada principale che conduceva in linea retta fino al villaggio.

Non c'erano macchine, né camion, nulla che lui potesse vedere, tranne un campo dall'altra parte della strada e il debole ergersi della bassa collina che costituiva il parco del paese. Non era una collina, in realtà, pensò incoerentemente, ma più una gobba che gli alberi avevano prediletto.

Attese per quasi mezz'ora, appoggiandosi contro una delle basse colonne scure e fumando. Quando, infine, il gelo del crepuscolo gli rese insensibili le mani, desistette e ritornò in casa, entrò, e trovò tutte le sue donne davanti al fuoco di Grace. Stavano giocando a un gioco di parole trovato nella libreria incassata nel muro e, quando lo notarono, risero, lo salutarono, e gli ordinarono di andare in cucina a preparare una cena con i panini.

«Va bene», disse lui, togliendosi la giacca e gettandola sul divano. «Ma non vi lamentate se non sono bravo come Bess».

 

«Dunque non è la più intelligente del mondo, Kelly, e allora? Ha abbastanza cervello per farcela in una qualsiasi università decente, e questo è tutto ciò che conta».

«E supponiamo che Abbey non voglia andare all'università?»

«Va bene, allora non ci andrà. È una sua scelta, no? È la sua vita, non la mia, per gridare forte».

«Nels, qualche volta penso che la ami troppo».

«Kelly! Stai... stai dicendo che vizio la ragazza? Dio non voglia».

«No, sciocco. Voglio dire solo... Bene, talvolta penso che lei sia più vicina a te di chiunque altro di noi: è tutto».

«Buon Dio, Kelly, le altre ragazze... ne risentono? Voglio dire, ho...».

«Se le hai trascurate? Nels, sei bello quando sei preoccupato. No, non hai assolutamente trascurato nessuno di noi. Ti preoccupi troppo. È il tuo problema, sai? Ti preoccupi troppo. Specialmente per Abbey. Va bene dire che è la sua vita, non la tua, ma ogni volta che esce, più che con Grace o Bess, tu perdi più sonno di chiunque conosca».

«Odio ammetterlo, ma è vero. Dio, è spaventoso, lo sai? Ma presto o tardi, ci lascerà. Crescerà, e i legami svaniranno prima che ce ne accorgiamo. Accadrà così lentamente che non ce ne renderemo conto».

«Forse... Lo spero. Spero che sarà una cosa lenta».

«È sempre così, no?»

«Suppongo di sì. Comunque, probabilmente sarà la prima a sposarsi, e poi il problema sarà di suo marito».

«Forse, ma detesterei essere l'uomo che la metterà alla prova».

«Ma adesso perché dici questo?»

«Non lo so. Veramente non lo so».

 

Non portavano armi che lui riuscisse a vedere, ma ciò non lo rendeva meno nervoso. Aveva udito le gomme sulla strada sudicia prima di tutti, e aveva abbandonato il gioco con la scusa di uscire sulla veranda, apparentemente per prendere una boccata di aria fresca. Si frenò dall'accendersi una sigaretta, poi si appoggiò contro un palo, e attese finché la macchina, una bassa decappottabile nera, avesse girato a fari spenti intorno alla betulla, parcheggiando poi davanti alla sua. Ne uscirono tre uomini, uno dei quali ridacchiava coprendosi la bocca, e lui capì subito che erano ubriachi, e perciò era troppo pericoloso ragionarci, a meno che non si fosse fortunati.

Si sistemarono ai piedi degli scalini della veranda. Stavano dritti, senza vacillare, ma l'odore della birra era tanto forte quanto il loro senso di mascolinità oltraggiata.

«Signori», disse, più per sentire la propria voce che per renderli consapevoli della sua presenza, «non ricordo che sia stato fatto alcun invito per una festa stasera».

«Vogliamo vedere Grace», disse un uomo robusto con un maglione. Era troppo scuro per distinguere i loro volti. Si trovavano appena oltre il chiarore diffuso delle luci del soggiorno: erano degli irregolari buchi neri contro il nero della sera. «Le voglio dire qualcosa».

«Grace», ribatté lui pacatamente, «in questo momento è occupata. Le darò il messaggio. Chi devo dire che è passato?»

«Oddio, chi devo dire che è passato?», lo scimmiottò quello. «Lei è molto educato, vero? Bene, anch'io so essere educato, sa. Quello laggiù è Brett, e io sono Frank. Vede? Anch'io so essere educato se voglio».

«Grazie», disse Nels.

Quello sulla destra, quello senza nome, venne verso di lui; era dell'età di Grace, ma senza quelle rughe che gli avrebbero attribuito età e personalità. Alzò un pugno. «Abbey ha un appuntamento con me, vecchio, e io voglio che esca fuori».

«Mio Dio!», disse Nels, allontanandosi dal palo. «Non credo che lei se lo ricordi. E, poiché non se lo ricorda, forse dovreste andare a cercare un altro posto dove giocare: va bene, ragazzi?».

Brett rise, poi scattò e inciampò sull'ultimo scalino mentre Nels gli sferrava un calcio nel petto, scaraventandolo all'indietro contro quello senza nome. Caddero disordinatamente, imprecarono, e impiegarono molto tempo a rialzarsi. Frank si limitò a restare lì, a fissare, finché Nels scese un gradino, quindi un altro, poi sferrò un forte pugno che Frank parò facilmente con la mano e con disprezzo lo allontanò e spinse bruscamente la faccia dell'uomo all'indietro con il palmo della mano. Quindi tirò un altro calcio, e prese Brett tra le gambe sorridendo al suo urlo angosciato mentre si girava verso Frank, che stava cercando di oltrepassarlo in gran fretta. Afferrò la giacca dell'uomo, lo fece voltare ed entrare nella loro macchina, poi lo afferrò per le gambe e lo scaricò sul sedile posteriore. Brett, che stava in ginocchio vomitando, fu sollevato per il colletto e buttato sul sedile del passeggero. Il terzo uomo si voltò per fuggire quando Nels lo affrontò, poi alzò le spalle e scivolò dietro al volante. Quando Frank si alzò dal fondo della macchina e lo fissò con odio, Nels gli sorrise educatamente.

«Non dirlo», lo ammonì. «Se hai intenzione di tornare per darmi una lezione, torna soltanto, ma non dirlo, va bene? È troppo scontato».

Era già tornato in casa prima che la macchina se ne andasse rombando, circondato da sua moglie e dalle figlie il cui stupore per la sua reazione era appena minore del suo. Subito si lasciò cadere sul divano, afferrò contento un brandy che gli veniva offerto, e lo sorseggiò finché le sue mani smisero di tremare.

Quando il racconto fu finito, le ragazze si compiacquero con orgoglio, e Kelly mormorò la sua ammirazione. Comunque, solo Abbey rimase da una parte, fissandolo come se fosse un estraneo, o forse non proprio un estraneo, ma piuttosto qualcuno che aveva conosciuto un tempo e che non aveva riconosciuto prima. La sua espressione lo preoccupava, ma non pensò a nulla finché non fu a letto e Kelly lo accarezzò sul petto.

«Spaventata?», le chiese nell'oscurità, sentendo il freddo delle mani di lei.

«Un po'».

«Forse domani mattina dovremmo andarcene. Mi sono andato a cercare dei guai, e probabilmente me ne daranno. Non voglio che voi ragazze vi facciate male, Kel».

«Hai fatto bene, Vichingo».

«Erano ubriachi. Lo avrebbe saputo fare anche un ragazzo. In quanto a questo, avrebbe potuto farlo persino Bess».

«Questo è maschilismo bello e buono».

Rise obbediente, quindi si fece silenzioso, e un momento dopo si sedette sul letto appoggiandosi alla testata.

«Che c'è?», chiese Kelly. La sua paura era troppo evidente per essere dissimulata. «Che cos'è?».

«Domani faremo un picnic», disse lui. «Un normale picnic alla vecchia maniera nel campo accanto all'albero. Completo di topi, formiche, mosche, e tutto il resto».

«Per amor di Dio, Nels, vai a dormire».

«Ma, dannazione, sono un eroe! Non mi merito qualche tipo di ricompensa?».

La leggera risata di lei lo fece infuriare, finché la donna lo tirò giù per i capelli per baciarlo.

Lui non disse assolutamente niente riguardo all'espressione sulla faccia di Abbey, all'espressione che era, in parte paura, in parte domanda, e in gran parte stupore: «Tu non mi lascerai veramente andar via, vero, papà?».

Non disse nulla.

Rabbrividì soltanto.

 

«Per dire la verità, Kelly, non ci vedo alcun vero problema».

«Ma Nels, lei non andrà. È stata accettata e non ci andrà!».

«Va bene, non ci andrà, e allora? Se vuole stare a casa e andare al college locale, per me va bene. Di fatto, la prenderei in questo modo. Non credo che sia ancora pronta per andarsene».

«Ma che cosa facciamo se lei...».

«Kelly, per piacere, vuoi lasciarla in pace?»

«No, Nels: lasciala in pace tu!».

 

La coperta marrone e blu puzzava ancora di soffitta, ma nessuno sembrava preoccuparsene, e lui si sedette con la schiena contro l'albero e le guardò lottare con gli avvallamenti del terreno mentre sistemavano il cibo, le bottiglie di vino, e i piatti di carta che Kelly aveva comperato in paese quella mattina. L'aria era leggermente offuscata da nubi indifferenti che di tanto in tanto coprivano il sole, ma il giorno rimase caldo e la brezza fece sì che l'aria non diventasse troppo afosa. Avevano scoperto una morbida palla da tennis in un ripostiglio e avevano giocato a "corri-alla-base", "uomo-in-mezzo", e qualunque altra cosa potessero ricordare o inventare per quasi tre ore prima che la loro fame si ribellasse e le forzasse a mangiare. Poi il vino corse liberamente, e Nels, che si sentiva espansivamente patriarcale quando si nutriva o veniva nutrito, scherzava e veniva deriso, ascoltava per la centesima volta delle storie, i pettegolezzi, nonché una vivida messa in scena da parte delle tre figlie della sua protezione della fortezza la sera, il secolo, la vita precedente. Poi fecero dei progetti solenni per il compleanno di Grace alla fine della settimana seguente, per il secondo anno di Bess, per i nuovi mobili di Kelly, e per la loro camera da letto a casa.

Quindi Abbey annunciò che era il tempo dei fiori selvatici, e le ragazze corsero via sparpagliandosi mentre Nels si tirava sua moglie sulle ginocchia e le arruffava i capelli, le accarezzava un braccio e guardava mentre una nuvola dal fondo nero minacciava il cielo.

«Andiamo a fare una passeggiata», disse all'improvviso; e lo fecero, allontanandosi dalle tre e dalla casa finché quest'ultima non sparì e le ragazze divennero un'ombra.

«Abbey ha avuto un altro incubo, la notte scorsa», disse Kelly.

«Sono stati quegli uomini», disse lui rapidamente. «Sarebbero abbastanza...».

«No», replicò lei, fermandosi, rivoltandosi tra le braccia di lui e guardandolo negli occhi. «Ha sognato ancora che era morta».

Lui scosse la testa. «Sarebbe venuta da me, come sempre».

«L'ho sentita piangere, Nels. Non voleva, e l'ha fatto. C'è qualcosa che non va, Nels. Lei... lei ha paura di te».

«Ha già fatto quei sogni in precedenza», disse lui, ignorandola.

«Nels, è una cosa seria, e tu lo sai».

«È il sangue irlandese che c'è in lei».

«Dannazione, Nels!». Lei spinse via le braccia di lui e se ne liberò, ritornando verso il picnic. Lui la guardò andare, con i pugni chiusi, poi si affrettò a raggiungerla, senza dire niente ma restando al fianco di lei. Avrebbe provato con un epigramma o due, qualcosa di appropriato o del tutto non sequitur,ma uno scoppio improvviso lo fece guardare in alto nel cielo. Il vento si era alzato, freddo e sibilante tra gli alberi alle loro spalle come qualche animale che cammina a mezzanotte. Curvò le spalle e si strofinò la nuca. Un altro scoppio, e Kelly si fermò, gli occhi grandi e fissi puntati verso l'albero. Lui li seguì, e vide le sue figlie raccolte intorno al tronco, che si stringevano l'una all'altra, udì allora le loro grida in un'armonia atonale e... stava già correndo.

Kelly gli gridò dietro.

Nonostante ciò, lui continuò a correre.

Una tana gli fece storcere una caviglia e cadde, alzando appena in tempo le mani, e sentendo le guance già insanguinate che sfioravano il terreno accidentato.

Prima che si fosse rimesso in piedi, Kelly lo aveva oltrepassato. Gli spari continuavano come le grida e, mentre l'albero diventava più vicino di cento iarde, capì che non si voleva colpire, non si voleva uccidere... solo spaventare. Cominciò allora a cercare i tre uomini che erano stati picchiati, e che ora stavano sparando rimanendo nascosti. Era possibile, pensò, che fossero ancora dietro il filare di alberi al bordo del campo, nascosti e ridendo, ma corse solo più veloce verso l'albero e le sue figlie. Le braccia di Kelly stavano agitandosi per fargli segno di stare giù, quando si alzarono alla loro vista e poi... fu fermata.

Cadde come se avesse inciampato, ma Nels vide sgorgare del sangue dalla sua spalla sinistra e cadde accanto a lei, gridando a Grace di tenere giù le altre.

«Non morire, Kel, per amor di Dio, non morire!», bisbigliò ripetutamente mentre lacerava il suo maglione, la sua giacca e la camicia, per fare una palla e metterla sulla ferita. La pallottola veniva da una certa distanza, osservò una parte di lui, o il bossolo sarebbe passato attraverso. Così com'era, lei era troppo sbalordita per fare altro che gemere, troppo stupita persino per sentire dolore. Quando ebbe finito, la sollevò tra le braccia e la portò con difficoltà, gridando all'improvviso in preda a un panico rabbioso quando Abbey si alzò per aiutarlo.

E fu fermata anche lei.

Con un urlo.

Lei rimase immobile per un secondo che durò molto più a lungo, quindi vacillò, mentre con una mano afferrava un ramo per sorreggersi. Le sue dita si chiusero su una foglia. Reggeva, poi si ruppe. Cadde a faccia in giù sulla coperta.

Bess si liberò e corse verso casa, ma non ci furono più spari.

Poi ci furono delle immagini incerte: luci rosse che lampeggiavano, uomini vestiti di bianco, uomini in uniforme blu, uomini con vestiti neri, un uomo che pregava, uno che gemeva con un braccio al collo e una benda sulla faccia, e una cartolina di condoglianze da parte dell'agente immobiliare della cittadina.

Abbey fu sepolta nel cimitero di Oxrun.

Grace portò a casa Bess, per pulire e aspettare i loro genitori e la scuola.

Kelly camminava per la casa.

Nels camminava per i campi. I tre uomini avevano dimostrato di avere un alibi, e nessuno fu arrestato. La vendetta lasciò posto al dolore, alla rabbia, al sentimento che qualcosa... qualcosa non andava, non andava.

«Nels, dobbiamo andare a casa. Il tuo lavoro...».

«Non posso, Kelly. Non chiedermi il perché. Ma io... non posso».

Nels vagava, sedeva sotto il suo albero e si poneva delle domande.

«Nels, stanno dando via il tuo lavoro. Io... noi dobbiamo ritornare. Grace e Bess hanno bisogno di noi. Dannazione, Nels, è quasi un mese!».

Voleva dirle di fare i bagagli, che, alla fine, era tutto passato, voleva dire che la vita doveva continuare, sebbene si chiedesse soltanto perché. Voleva, ma non poteva. Kelly partì il giorno dopo con il primo treno del mattino.

E lui rimase seduto in cucina finché il sole calò, bevendo caffè e tè, e scuotendo la testa in attesa delle lacrime finché, prima delle dieci, si irrigidì.

"Oh, Gesù, no!", pensò.

Si allontanò dal tavolo e inciampò sulla porta, l'aprì, attraversò la veranda e si diresse verso il campo. Era spaventato. Più spaventato di quando aveva udito il primo sparo e sapeva che cos'era, più spaventato di quando stava sulla veranda a fronteggiare i tre ubriachi. Si guardò alle spalle e vide l'unica luce in cucina, calda e leggermente sfocata, che si spegneva.

Si disse che doveva fermarsi. Non lo fece o non poté, finché non raggiunse l'albero.

Non c'era vento.

I rami si mossero.

«Abbey?», mormorò.

Si mossero e scricchiolarono.

«Abbey, io ho ancora una famiglia. Loro hanno bisogno di me. Devi lasciarmi andare».

Le foglie tremarono.

«Abbey, per favore, sono tuo padre!».

Tremarono e si accartocciarono.

Si aspettava una voce nel vento che non soffiava, una voce da ragazzina che avrebbe toccato la sua mente con malinconia, e un addio finale.

Ciò che non si aspettava era il mormorio di rabbia e, alla fine, la voce che sibilò: Fare dietrofront, papà, non è sempre leale.

 

DARRELL SCHWEITZER

La mano

 

Per un certo numero di anni, Darrell Schweitzer ha riempito alcune riviste amatoriali di racconti brevi, la maggior parte dei quali secondo il modello di Lord Dunsany. Erano buoni nel loro genere, ma erano soltanto un pallido esempio di cosa questo giovane e bravo scrittore era in grado di fare. Comunque, le sue storie del Cavaliere Julian mostrano in modo più che ammirevole il suo notevole talento. Queste storie sono apparse, per la maggior parte, su una rivista australiana, ma una ha trovato la strada per Heroic Fantasy, un'antologia di racconti originali che la DAW ha pubblicato in precedenza, e ora ce n'è un'altra che viene pubblicata in un'antologia americana: questa. Quando Schweitzer non scrive racconti brevi, articoli o interviste, lo si trova a lavorare come aiuto redattore alla «Rivista di fantascienza» di Isaac Asimov.

 

1.

 

«In che battaglia fu, Sir Cavaliere, e per quale nemico perdesti la mano? Uccidesti chi ti menomò in tal modo?».

Chi parlava stava seduto davanti a me: era un uomo basso, incappucciato, con una folta barba grigia. Non riuscivo a vedere il suo viso nel crepuscolo che scuriva. Era stato l'ultimo a venire quel giorno nella mia tenda, situata in quel crocevia nelle montagne, oltre l'impero dei Greci che è chiamato Bisanzio. La circostanza era strana: io, Julian, possessore di vari nomi e titoli, dopo aver da lungo tempo abbandonato la Cavalleria e Dio, sono stato ridotto a mendicare, evitato dalla gente di ogni paese. Chi darebbe fiducia a questo cupo Cavaliere dalla mano uncinata, coperto da una maglia di ferro ossidata, il cui scudo e la cui sopravveste non portano l'emblema della croce? Che sta facendo qui? È veramente un uomo, chiederebbero, o qualche creatura venuta dalle tenebre? Perché non se ne va con i suoi compagni verso est, a combattere i pagani? Alla fiera, in questa tenda, in uno strano paese vicino a una strana città, e parlando una lingua che conosco male, sembra che abbia trovato il mio posto, almeno per il momento. Non potrei ammettere a me stesso che la mera esistenza sia diventata uno scopo a sé stante, e che ogni ora di pace sia un fine degno di una lunga ricerca.

Per guadagnarmi da vivere racconto i miei viaggi e le avventure di altri, e qualche volta, quando queste mancano, invento, ma nessuno è in grado di dire quando mento e quando no. Assai popolare è quella del mio soggiorno nel Paese dell'Oscurità, dove dimorano persone meravigliosamente diverse, tanto che le teste crescono loro sotto le spalle, e le orecchie, appese alle braccia, si allungano come le ali dei pipistrelli, rendendoli in grado di volare. C'era anche quella delle ragazze di sale di Antiochia, le cui lacrime riempirono interamente le loro forme, così che divennero statue di sale come la moglie di Lot, nel piangere un bestemmiatore colpito a morte dall'apostolo Pietro. Quando ogni racconto si concludeva, l'ascoltatore gettava una moneta nella ciotola che avevo messo... Ma il racconto veniva pagato anche in altri modi.

Essere un cantastorie è come confessarsi a un prete: no, più come il pazzo della favola che infilò la testa tra le canne e bisbigliò: «Il Re Mida ha le orecchie d'asino». Tutti lo sanno, ma è una cosa immaginaria. Chi crede a quello che sussurra il vento tra le canne? Così ci si può liberare dalla verità, per cui dissi a chi chiedeva la vera risposta:

«In apparenza molto e molto tempo fa ma, in realtà, non molto tempo fa, ci fu un Cavaliere che incontrò il Diavolo faccia a faccia in un castello in rovina nella foresta, e lì si consegnò a lui, per riscattare una giovane che era stata vittima di un sopruso.

Questa fu per la sua fede - e, in seguito, la sua fede fu per lui solo fonte di terrore - l'unica cosa cavalieresca che avesse fatto in tutta la sua vita, in funzione di tutti i suoi ideali, del suo addestramento, e di tutte le sue azioni. Per questo fu dannato, e il Diavolo non prese la sua anima in quel momento, dato che era ormai acquisita inequivocabilmente, ma invece gli ordinò: "Vaga per il mondo che, ogni giorno, sarà per te nuovo, e sii sempre uno straniero per tutti, finché, alla fine, verrai da me". E nei suoi viaggi incontrò un essere malvagio, che nelle sembianze di una signora lo confortò, ma che, in realtà, bevve il suo sangue e i suoi anni. Quando l'essere fu ucciso, come bisognava fare, il Cavaliere si svegliò da un sogno beato in quelle braccia ingannevoli e, confuso, in preda a un'improvvisa ira, uccise il suo liberatore, cosa per la quale fu nuovamente dannato. Poi, in una delle occasioni in cui desiderava che la sua vita avesse termine, anche se sapeva che non era possibile, cercò la Valle di Mistorak nel lontano est, e lì parlò con uno spirito, ma pagò quelle parole con la sua stessa carne. Ecco come fu che perse la mano».

«E lo scambio fu vantaggioso?», chiese l'ascoltatore. «La risposta fu soddisfacente?»

«Se lo fosse stata, starei qui in questa tenda a raccontare queste strane storie?».

L'incappucciato sibilò quella che doveva essere una risata.

«Non ho una moneta per te», disse, «ma, in cambio, eccoti un mio racconto. C'era un Re, il cui nome era Tikos, che governava un paese molto antico. Prima o poi, al castello dei suoi padri venivano tutti i grandi Signori del mondo. Alessandro ci venne da ragazzo e, vistane la meraviglia, quando crebbe mandò altrove i suoi eserciti, verso est. Però, alla fine, a seguito del tradimento dei preti di un nuovo Dio, contro i quali i vecchi Dei erano impotenti, la gente prese il Re e lo mutilò secondo la loro usanza, tagliandogli la mano destra in modo che non potesse mai più alzare una spada, e tagliandogli anche la sinistra in modo che non potesse più tenere uno scettro. Così il Re fu ridotto alla miseria e al dileggio, finché trovò un modo per vendicarsi. Giurò fedeltà a un nuovo padrone. Divenne un Nekatu».

«Nekatu

«Come tale aveva ampi poteri, incluso quello della profezia. È stato profetizzato che il Re della tua storia verrà al castello del mio Re e imparerà che cosa significa questa parola».

Con ciò si alzò e lasciò la tenda. L'entrata sventolò come una bandiera al suo passaggio.

«Aspetta!». Balzai in piedi e lo seguii, uscendo fuori nell'aria della sera. Faceva già un freddo intenso, poiché in montagna il freddo cala rapidamente. Oltre i picchi, il sole era tramontato in un mare dorato. Al di sopra, le stelle erano già spuntate, e io ero sicuro che il vento gelido che sentivo proveniva da loro, da oltre la terra mortale, dove i demoni alati trafficano liberamente. Il mio ascoltatore doveva essere un demone del genere per fuggire così velocemente. Non c'era più alcun segno di lui, da nessuna parte.

Nekatu, aveva detto. Era la prima volta che udivo quel termine.

Quella notte, mentre dormivo, fui perseguitato da brutti sogni: dapprima una visione ricorrente di un prato ricoperto di persone appena uccise che si alzavano quando mi avvicinavo, con le loro ferite aperte, per combattere ancora in un tormento senza speranza. Alla fine, le loro grida mi strapparono al sogno, e allora mi svegliai, sconvolto per un istante, trovando che la mia tenda mi era sconosciuta. Poi ascoltai i rumori della notte, il battere degli zoccoli dei cavalli legati al freddo, lo scoppiettare dei fuochi del campo, un cane che abbaiava, e qualcuno che cantava. Al di sopra di tutto ciò, una civetta chiurlava.

Mi addormentai di nuovo, e questa volta cavalcavo attraverso un bosco scuro, dove ogni albero sembrava chinarsi per il peso di una mostruosa minaccia nascosta nei rami, mentre facce inumane facevano capolino rapide tra i tronchi. Raramente avevo provato un tale terrore nel mondo diurno. Il mio cavallo voleva voltarsi per scappare, e solo con un estremo sforzo riuscii a mantenerne il controllo. Mi arresi un po' all'istinto dell'animale, lasciandolo andare al trotto, poi al piccolo galoppo e, infine, al galoppo sostenuto, quando il suo panico e il mio furono tutt'uno, e attraversammo la foresta in una pioggia di zolle di fango alzate dagli zoccoli, ma c'era ancora la sensazione di un terrore soffocante e di alcune forme indistinte tra gli alberi. Poi mi voltai sulla sella e guardai dietro di me: vidi che ero veramente inseguito da un altro Cavaliere vestito con una maglia di ferro nera e una sopravveste nera, a cavallo di un nero destriero, con la visiera alzata e con un teschio per faccia. Allora gridai e mi svegliai nuovamente nella tenda: c'era, nel campo, un silenzio assoluto e ogni orecchio era rivolto nella mia direzione. Lo strano Cavaliere stava forse lottando con un demone nel suo letto? Sapevo che, al mattino, avrei dovuto andarmene prima che il racconto ingigantisse nell'essere raccontato ancora e ancora, prima che raggiungesse le orecchie di un prete, e prima che fossero poste troppe domande.

Proprio prima dell'alba, sonnecchiai ancora. Stavo ancora cavalcando attraverso la foresta, con l'apparizione proprio dietro di me, ed ero esausto, come se il mio io del sogno fosse fuggito sul cavallo onirico chiazzato di schiuma, per tutto il tempo in cui ero stato sveglio. Il terrore era ancora là, e ogni istante sembrava l'ultimo, finché la foresta si aprì in una ampia pianura dove due fiumi si univano. Dove si incontravano c'era una città fortificata e, oltre questa, con un fiume che la cingeva da ogni lato, c'era un monte solitario. Tre dei suoi lati erano scogliere ripide, ma sul quarto una strada si snodava verso il basso attraversando un ponte, ed entrava nel lato più lontano della città. In cima alla montagna era appollaiato un castello di pietra nera. Non appena vidi quel luogo, mi parve che un grande peso mi fosse stato tolto di dosso, e un altro sguardo alle mie spalle rivelò che la mia nemesi era svanita. Lasciai rallentare il cavallo fino al passo e, mentre mi avvicinavo alla città e al castello, il sole sorse dietro di me, fuori dalla foresta, scacciando ogni male.

L'ultima cosa che vidi - e non so se la immaginai o la sognai veramente - fu lo sconosciuto incappucciato che si alzava da dove era stato seduto vicino a un calderone fumante, allungando le gambe intorpidite, mentre tutte le cose del mio sogno - il Cavaliere, il cavallo, la foresta, il castello, e persino me stesso - affondavamo lentamente nel brodo fino al fondo, e lì ci dissolvevamo.

Quella notte non ebbi altre visioni.

C'era gente che si stava raccogliendo intorno quando mi svegliai la terza volta. Nel momento in cui emersi dalla mia tenda, essi rifiutarono decisamente di guardarmi direttamente o di dirmi una parola, anche se venivano interrogati. E io sapevo di non dover insistere nel domandare. Alcuni stavano levando il campo, ammucchiando le merci invendute nei carri, preparandosi a partire anche prima che la fiera fosse finita. Non dovetti chiederne la ragione. Era un cattivo presagio. Non ci sarebbe stata fortuna in quel posto mentre, forse, una maledizione avrebbe colpito coloro che avessero indugiato. L'anno seguente, la fiera sarebbe stata senz'altro tenuta in un posto diverso.

Nemmeno io indugiai ma, invece, impacchettai le provviste e il denaro che avevo nelle borse della sella, e me ne andai a cavallo, lasciando la mia tenda dove si trovava. Non avrei potuto portarla con me in ogni caso. Per quanto me ne importava, il vecchio panettiere da cui l'avevo comprata avrebbe potuto riprendersela. Un giorno avrebbe potuto voler lottare con un Demonio, lì dentro.

Sapevo che in quei sogni, da ovunque venissero, qualcosa di importante era stato rivelato, anche se un po' vagamente, come è caratteristico dei sogni. Ma tali cose non possono essere senza significato. Quindi, come era stato profetizzato, cavalcai verso ovest e, quello stesso pomeriggio, arrivai nella foresta che avevo visto. Non aveva un aspetto sinistro come nel sogno ma, con la coda dell'occhio, vedevo sempre un'ombra che mi metteva a disagio. Di tanto in tanto mi guardavo alle spalle per vedere se ero seguito. Ero solo, ma il mio destriero era nervoso come me, e difficile da controllare.

Oltre il bosco, come avevo previsto, c'era una pianura dove due fiumi si incontravano, e una montagna si ergeva sopra tutto. Si poteva raggiungere il castello che si trovava sulla cima, soltanto passando attraverso la città, come se il castello fosse il torrione interno di una fortezza più grande che lo circondava.

Presto incontrai dei contadini che portavano i loro raccolti al mercato. La gente di quella parte della foresta raramente osava avventurarsi fino all'altra, per cui non era la stessa della fiera, o così sperai. C'era gente di tutti i tipi che andava nella stessa direzione: due preti - e io mi ritrassi istintivamente alla loro vista - un ragazzo con un mandolino a tracolla, naturalmente un menestrello, e ogni varietà di gente umile, a piedi, o a cavallo di muli, di cavalli da tiro, o su carretti.

Mentre il traffico aumentava, c'erano anche alcuni ricchi nelle loro grandi carrozze dalle ruote solide, circondate da folti gruppi di uomini armati. Mi venne in mente di cercarmi un impiego facendomi passare come uno di loro ma, prima, sapevo che dovevo portare a compimento qualunque obbligo soprannaturale fosse stato previsto per me, o i sogni sarebbero continuati, il Cavaliere scheletrico mi avrebbe raggiunto mentre dormivo e, come minimo, mi sarei svegliato pazzo.

C'era un soldato al cancello della città che si appoggiava pigramente su una picca e chiedeva a ognuno quali erano i suoi affari.

Un fattore arrivato con un carico di cavoli, annunciò di essere venuto per venderli, e fu fatto passare con un cenno annoiato. I nobili nelle loro carrozze sarebbero stati riconosciuti per mezzo degli stemmi delle loro casate, inalberati su un'asta portata da uno dei loro uomini a cavallo e niente affatto disturbati.

Nel mio caso, non fu così semplice.

«Che cosa vuoi qui?». Vedendo che indossavo una cotta di maglia sotto il mantello, un elmo sulla testa, che portavo una spada, e notato il semplice scudo nero che pendeva dalla mia sella, ma, nel frattempo, comprendendo da uno sguardo estremamente indagatore che ero un forestiero, la guardia si irrigidì facendo attenzione, e alzò la picca per bloccarmi la strada.

Uno sguardo ugualmente indagatore da parte mia rivelò che non vi erano altre guardie nelle vicinanze, mentre nessuno degli uomini in armi assegnati alle carrozze era abbastanza vicino per correre immediatamente in suo aiuto, o anche per comprendere subito che cosa stesse accadendo.

Così allungai la mano destra - la mia unica mano, essendo l'uncino nascosto sotto il mantello - e spinsi via la picca. Allo stesso tempo finsi di essere arrabbiato, e lo fissai con odio.

«Tu, sudicio villano! Come osi fare domande a chi è più in alto di te?». Il mio greco era rozzo, ma fui compreso. La picca cadde a terra, e la bocca dell'uomo si aprì. Non sapeva cosa fare, e da solo non osava fare nulla. Così presi nuovamente le redini in mano e spronai il mio cavallo perché potesse entrare rapidamente in città prima che lui riuscisse a ritrovare la sua prontezza. Quasi con altrettanta rapidità mi chiesi se avessi fatto la cosa giusta. La guardia avrebbe sfidato l'ira del suo padrone e confessato la sua incompetenza? Bene, il dado era tratto, come un giorno aveva osservato Cesare, e io avevo fatto quello che avevo fatto. Se la mia strana storia fosse stata conosciuta lì, di certo non sarei stato il benvenuto, ma volevo sapere che sorta di luogo fosse quello prima di cercare il suo Signore e dirigermi verso il castello.

Nella piazza principale stava accadendo qualcosa che non era il normale commercio o intrattenimento.

Una grande folla si era radunata e c'era molta eccitazione. Mi alzai sulle staffe per vedere più chiaramente. Era un'esecuzione. Un uomo veniva tirato e squartato da quattro buoi imbrigliati separatamente. Anche sopra le grida del popolo potevo udire le sue urla. Mentre stava appeso a una certa distanza da terra e dei boia incappucciati erano pronti, con una verga, a incitare gli animali ad avanzare, un altro, presumibilmente il mastro boia, ne aveva aperto la pancia, tirato fuori un capo dell'intestino e aveva cominciato ad attorcigliarlo intorno a un bastone. A ogni deciso e brusco giro si levava un alto grido. Poi una delle braccia del prigioniero scivolò dalle corde e ne vidi il perché: non aveva la mano, e quindi il polso era scivolato fuori dal nodo.

Gesticolando furiosamente, il boia si distolse dal suo compito con le viscere, diede un calcio a uno dei suoi assistenti e legò di nuovo la corda, questa volta sotto il gomito.

Come se quella vista le ricordasse qualcosa, la folla cominciò a gridare ad una voce una sola parola: «Nekatu! Nekatu!».

Mi sedetti, spaventato. Quella era la seconda volta che sentivo quel nome, o termine, o qualunque cosa fosse, e la circostanza mi piaceva anche meno della prima. Mi premurai che la mancanza della mia mano non si notasse. Dubitai che fosse quello il delitto del criminale, ma l'istinto mi consigliava la cautela.

Disgustato, cavalcai tutt'intorno ai lati della piazza e lungo una strada stretta piena di bancarelle. Dietro di me le grida della folla arrivarono al culmine, poi si placarono.

Ora, tutte le città che ho visto sono vaste caverne di legno e pietra, e questa non faceva eccezione. La notte comincia presto in una città. Anche Costantinopoli, la grande capitale, è illuminata solo davanti al palazzo, alle caserme delle guardie, e in alcune piazze principali. La gente comune cammina a tastoni come i ciechi attraverso strade fangose e traditrici. In questi luoghi i piani alti delle case convergono sulle strade secondarie, e i tetti che quasi si toccano, impediscono di entrare a ogni luce, tranne che a quella di mezzogiorno. Mentre cavalcavo, la notte era avanzata, e il tramonto che svaniva si rifletteva solo su quegli alti abbaini e sui tetti che arrivavano a catturare la luce.

Giunsi quindi in uno spazio tra gli edifici, dove potei vedere chiaramente il castello sulla collina oltre la città. Ora si stagliava con un forte contrasto contro il cielo occidentale. Anche col passare del tempo e la luce che svaniva sempre più, il luogo restava all'oscuro. Non una torcia venne accesa nella torre; non una lanterna rischiarava le finestre. Sembrava semplicemente impossibile che potesse essere deserto, con una città fiorente ai suoi piedi.

«Ssh!», bisbigliò qualcuno. «Non lo fissare! Attirerà una maledizione sulla tua testa».

Guardai verso il basso, stupefatto che qualcuno mi parlasse in modo simile. Era una vecchia, i capelli arruffati in un ammasso bianco, con una fascina di legna sulle spalle.

«E che male può venire dal guardare la casa del tuo Signore? Donna: parli di un tradimento contro di lui?».

Il suo viso si aprì in un sorriso, fornito di denti irregolari.

«Il nostro Signore? Ah! Il nostro Signore mortale vive qui in città. Solo i malvagi lo chiamano Signore!». Per spiegarsi meglio, indicò il castello con la mano libera.

«Allora è lo stesso Satana ad alloggiare lassù?», risposi ridendo.

«Non si scherza su queste cose, buon signore. Guarda quello che hanno squartato oggi: questo è ciò che accade alla gente che si interessa troppo dei luoghi malvagi». Si fece in tutta fretta il segno della croce.

«Soltanto per averli guardati?».

Lei sorrise ancora. Ora ero sicuro che mi prendesse per un pazzo, nonostante la mia alta nascita.

«Lui ci è andato. Era un Nekatu.

Non appena pronunciò quella parola, la conversazione non fu più uno scherzo. Mi chinai sulla sella e la guardai con attenzione. Nonostante l'oscurità potei vedere i suoi occhi abbastanza bene per affermare che lei all'improvviso ebbe paura di me.

«Ho udito di questo Nekatu molte volte. Due volte da quando sono arrivato qui. Vecchia, c'è dell'oro qui dentro per te se gentilmente mi dirai - i santi possano preservarti - di cosa tutti parlano. Che cosa significa Nekatu.

Lei si portò la mano alla bocca e non disse nulla. "Ah", pensai, "la sua lingua si è improvvisamente annodata". Con il proposito di scioglierla, presi la mia borsa per trarne una delle mie poche monete. Ma il laccio di pelle era tirato troppo strettamente. Non riuscivo a scioglierlo con una mano. Allora, senza pensarci, feci scivolare la punta del mio uncino tra il laccio e la borsa per allentarlo.

E la donna gridò. Alla vista dell'uncino lasciò cadere la fascina e si mise a correre lungo la strada strillando. «Nekatu! Aiuto! Un altro! Nekatu.

All'istante, quello che era sembrato un vicolo vuoto si riempì di gente. Alcuni afferrarono le redini del mio cavallo. Io tirai fuori la spada e menai fendenti a destra e manca: ci fu un urlo di dolore ma, nel frattempo, dozzine di altri individui erano sciamati tutt'intorno. Delle mani mi stavano tirando giù dalla sella. Il mio cavallo arretrò preso dal terrore, cosa che li aiutò, anche se alcuni crani furono schiacciati sotto gli zoccoli. Caddi all'indietro dalla sella nella strada fangosa, lottando furiosamente con la spada e l'uncino.

Ciò ebbe un'efficacia temporanea. Nessuno mi stava tenendo quando caddi a terra. Mi rialzai a fatica. L'acciaio che facevo roteare tenne temporaneamente a bada i miei nemici. Nessuno di loro era armato con qualcosa di più temibile di alcuni dei pezzi di legno della vecchia.

D'un tratto la situazione cambiò. Udii il tintinnio di maglie di ferro vicine, e allora guardai rapidamente nella direzione in cui la vecchia era fuggita. Le picche e gli elmi d'acciaio delle guardie della città si stavano facendo strada attraverso la folla che si apriva al loro arrivo.

Con rinnovata furia mi feci largo attraverso il muro dei miei assalitori. Il mio cavallo era fuggito. Sarei dovuto scappare a piedi. Un colpo di scarpa ferrata in un inguine, un altro a un braccio alzato, un fendente sul viso con il mio uncino di metallo, e non ero più circondato. Poi un grido si alzò dalle guardie, e tutta la gente riprese coraggio e mi si avventò contro. La caccia si spostò da quella via in una più stretta, attraverso il fango, spingendo malamente di lato i passanti finché anche loro capirono che cosa stava accadendo e si unirono alla caccia. Il grido di «Nekatu!»sembrava essere una sorta di allarme universale, e ogni cittadino smetteva di fare ciò che stava facendo e si lanciava contro il comune nemico.

La mia cotta di maglia e le scarpe coperte di ferro mi rallentavano, per cui, di sicuro, sarei stato ben presto raggiunto, se la caotica mischia non si fosse riversata in un vicolo così stretto da non esservi abbastanza spazio per far passare un carro... e c'era proprio un carro che si stava dirigendo verso di noi.

Alcuni dei miei inseguitori esitarono, ma io mi buttai in avanti con disperata velocità. Il conducente del carro tirò le redini, incerto su cosa stesse accadendo. Prima che riuscisse a capirlo, io mi ero portato accanto a lui. Mi appiattii lungo il muro, poi sferrai al cavallo, con la spada, un lungo e forte colpo sulla groppa. Naturalmente l'animale, infuriato, caricò in avanti, completamente fuori controllo, dritto verso la massa dei miei nemici. Mentre passava, gli assi sporgenti del carro mi mancarono appena di un palmo.

 

Respirando a fatica, ma mantenendo ancora la forza che mi aveva portato indenne attraverso innumerevoli battaglie, arrivai infine all'estremità della città, dove un cancello conduceva al ponte sul fiume, e poi alla strada tortuosa che saliva verso il lato quasi a strapiombo della montagna. Il cancello era sbarrato dall'interno. Ora, anche il ponte era fortificato, e un piccolo numero di soldati, lì sopra, poteva di sicuro evitare che il nemico si arrampicasse sopra di esso da delle chiatte. Quel lato era completamente inaccessibile in altro modo. Lo spesso e scivoloso muro della città cadeva a strapiombo sul bordo dell'acqua, lasciando solo un piede o due di riva fangosa. In ogni caso, non avevo visto altra indicazione che quello fosse un periodo di guerra.

Senza indugiare a riflettere sopra quella sciocchezza di progetto per l'assedio di una città che sembrava in ogni caso completamente preda della follia, misi entrambe le spalle sotto la massiccia sbarra di legno, e la spinsi con tutta la forza verso l'alto finché si liberò dei suoi supporti e cadde a terra con un tonfo. Il cancello si aprì verso l'esterno e io barcollai all'indietro, entrando sul ponte.

Nel frattempo, coloro che non erano stati calpestati dal carro in fuga mi avevano ritrovato. A lunghi passi attraversai il ponte e mi diressi verso la sommità della montagna. Poi mi voltai a guardare: non mi seguivano. Ora la folla riempiva il passaggio, ma nessuno vi si avventurava. Una folla di volti mi fissava, astiosa e decisa. Sembrava del tutto normale che gente che temeva in modo così irrazionale gli uomini a cui mancavano le mani e che evitava il castello intorno al quale la città era costruita, tanto da condannare a morte chiunque vi andasse, si comportasse in maniera così ridicola. Ero sicuro che fossero tutti pazzi. Con una smorfia di disprezzo, mi voltai e mi diressi verso la montagna a passo tranquillo.

Fu solo dopo che ebbi camminato un bel po' e che il castello incombette enorme sopra di me, cancellando le stelle, che mi venne in mente che la gente avrebbe potuto, dopotutto, essere stata sensata. Avrebbe potuto esserci qualche pericolo nascosto tra quelle torri, tale che uno che percorreva la mia stessa strada si sarebbe assicurato un destino più spaventoso di quello che il boia avrebbe potuto escogitare.

Se era così, mi trovavo in una situazione terribile, come un uomo che non sa nuotare ed è intrappolato in una nave in fiamme. Non potevo ritornare in città, e non c'era altra strada dove andare se non salire al castello che io avevo, per la prima volta, visto in sogno. In quel sogno era stato un luogo di sollievo e rifugio, ma ora non ne ero tanto sicuro.

C'era una porticina accanto all'entrata principale del castello, con un pesante pezzo di ferro per battente. Lo battei finché il suono riecheggiò attraverso l'intero paese.

All'interno ci fu un movimento.

«Nekatu», dissi.

Un chiavistello scivolò e la porta si aprì.

Cosi trovai rifugio tra i Nekatu.

 

2.

 

«La parola nekatu significa letteralmente 'messaggero', non in greco, ma nell'antica lingua di questa gente. Come vedi, io ho mantenuto la mia promessa. Non appena sei arrivato qui, hai saputo il suo significato».

Lo stesso straniero incappucciato che era venuto nella mia tenda la notte precedente, ora mi condusse su per una scalinata tortuosa e quindi in una grande stanza. Non potrei dire quanto grande. Portava soltanto una piccola lampada a olio, e niente era illuminato. Il castello era chiaramente in uno stato di estremo abbandono. Riuscii a fatica a distinguere travi cadute, nonché pietre e tappezzeria strappata sparse ovunque.

Poggiò la lampada sopra un tavolo di legno vuoto, tirò fuori una sedia dall'alto schienale e mi fece cenno di sedere. Gli unici rumori furono lo strusciare della sedia, il risuonare delle mie scarpe e il sommesso rumore delle sue. Lui restò in piedi e io rimasi assolutamente immobile per un po': l'unico suono fu il lieve sibilo della lampada. Poi ci fu qualcos'altro: un lieve picchiettio, come lo zampettare dei topi. Dapprima pensai che di ciò si trattasse, ma non c'era abbastanza grattare. Troppo lieve, senza unghie, più simile al tamburellare nervoso delle dita di molte persone sul legno.

Guardavo ogni mossa del mio ospite con estremo sospetto. Tutto ciò era stato una sua macchinazione. Lui voleva qualcosa. Ero stato condotto lì con sicurezza, come un pesce attaccato a un amo. Per sottolineare che non ero completamente indifeso, non rinfoderai la spada, che avevo tenuto in mano durante tutto il percorso sulla montagna, ma la misi in chiara evidenza davanti a me. Risuonò e, per un attimo, il tamburellare di sottofondo cessò. Poi ricominciò, un po' più vicino.

Il cappuccio cadde all'indietro e rivelò un viso magro, barbuto, senz'età. Sopra ai capelli d'argento c'era il sottile cerchio di una corona d'oro.

«Il Re Tikos, suppongo».

«L'infelice Cavaliere del racconto, suppongo». Un'altra sedia fu tirata fuori e lui si sedette davanti a me. «Ma mettiamo da parte ogni finzione. Guarda questo».

Si chinò in avanti nella luce, si tirò su entrambe le maniche, e tenne in alto i polsi, alla luce, in modo che potessi vedere bene.

«Guarda molto da vicino», disse.

Emisi un involontario grugnito di stupore. C'era una sottile linea che gli attraversava entrambi i polsi, e lui voltò le due mani per mostrare che quelle linee giravano tutt'intorno. Nessuno poteva avere delle cicatrici come quelle. Erano suture.

«Stregoneria! Nemmeno il più grande dei dottori in medicina...».

«Grande e non tanto nobile Cavaliere, se il tuo racconto è veritiero come io penso che sia, tu stesso non sei tanto pio».

«Questo è... vero. Ma come?»

«Questo è uno dei molti poteri dei Nekatu».

«Messaggeri?»

«Una specie di fratellanza, isolata dal resto dell'umanità. Ecco perché ti ho portato qui, perché ti ho cercato quando ti ho visto alla fiera e ho notato che ti mancava la mano sinistra».

«Sei una specie di demone affascinato dalle mutilazioni? Vai alle guerre in Oriente e ti sazierai».

«No! No! Tu non capisci che ti offro un grande dono. Guarda ancora!».

Allungò la mano sotto il tavolo e tirò fuori da qualche parte una scatola di legno. Il coperchio con i cardini si aprì. All'interno c'era una mano sinistra ricavata da un singolo pezzo di cristallo, che brillava di mille facce. Era un lavoro stupefacente, qualcosa con cui riscattare un impero.

Non ero del tutto sicuro che fosse uno scherzo dovuto alla poca illuminazione il fatto che quella cosa sembrasse muoversi. Le dita si erano completamente allungate? Ora sembravano un po' curve.

«Per mezzo di un'arte estremamente segreta», disse, «ho imparato a fare queste. Contrariamente a quello che dicono i filosofi, ciò che brilla ha sostanza. Ogni raggio di luce catturato all'interno del cristallo è una cosa vivente, che dà vita alla mano stessa. Ho esposto questa mano alle stelle per cento notti, dandole la vita del Nekatu. Quando viene attaccata a un polso, essa diventa carne vivente in tutti i sensi».

«Attaccata? In che modo?»

«Aderisce naturalmente, come vedrai. Togliti quell'uncino e quel rivestimento di bronzo, guarisci, e sii di nuovo integro».

L'intensità del suo sguardo, la mia stanchezza e i pericoli attraverso cui ero passato, mi dovettero stregare, poiché non pensai che ad avere ancora una mano vivente, anche se, intorno a essa, ci sarebbe stata una sutura. Dimenticai la slealtà, l'estrema stravaganza della mia situazione, e il fatto infantilmente ovvio che il Re non si stava comportando così per caritatevole commiserazione della mia menomazione.

Comprendendo appena ciò che stavo facendo, tolsi l'uncino e il rivestimento dal mio polso sinistro, lasciando vedere il moncone cicatrizzato. Tikos prese il mio braccio nella sua mano - io non feci resistenza - e lo unì alla mano di cristallo sulla fiamma della lampada.

Non sentii dolore. Prima ci fu una sensazione di intorpidimento, poi di solletico, e una specie di fusione quando la fiamma toccò il polso e la mano e la sostanza si sciolse come cera calda. Mentre ancora guardavo, il cristallo perse la sua brillantezza, le facce si levigarono, e il colore svanì. Si trasformava in carne. Mi sentivo lontano da tutto, galleggiando nell'astrazione. Mi chiesi divertito se fosse mai stato provato su un negro. Il colore sarebbe stato giusto?

Quando il Re lasciò la presa, la mano sembrava come se fosse cresciuta lì. Eccitato per la sensazione, piegai le dita, poi strinsi la mano a pugno e la battei con tutta la forza sul tavolo. La spada e la lampada saltarono.

«È un miracolo! Sono guarito!».

«Sì, è miracoloso. Tra l'altro, hai fame? Dubito che tu abbia mangiato».

Non risposi. Sembrava una domanda così sciocca, come quella del colore dei negri. Chi poteva ora preoccuparsi del cibo?

Re Tikos schioccò le dita e mi fu posto dinanzi un vassoio. Il mio cuore batté più forte quando vidi che fu poggiato lì da delle mani,ma nient'altro. Fluttuavano nell'aria come se delle creature le allungassero nel nostro da qualche mondo invisibile.

«Cristo e Satana!».

«Bestemmia chi vuoi», rise il Re. «Perché non Giove, Thor, Mitra e anche Ahura-Mazda? Ti farà altrettanto bene. Quelle mani, posso dirtelo con sicurezza ora, sono semplicemente dei Nekatu,come te, solo a uno stadio di sviluppo più avanzato. Il corpo svanisce - non è importante - ed è assorbito interamente dalle mani. Perché questo non è accaduto a me? Io rimango intero perché il Maestro, che noi tutti serviamo - sì, anche tu, ora - così vuole. Io cerco dei nuovi schiavi per lui, anche se talvolta, come quello sciocco in città oggi, alcuni vanno persi. Ha cercato di scappare».

Con un urlo di rabbia e disperazione e, insieme, ogni imprecazione a cui potei pensare, afferrai la spada e sferrai un affondo attraverso la tavola verso il mostro che rideva, con l'intento di farlo a pezzi. Ma, prima che potessi persino alzarmi in piedi, uno shock gelido mi corse per il braccio sinistro e attraverso il corpo. Barcollai insensibile per un secondo, con la spada che mi cadeva dalle dita divenute insensibili, poi caddi in avanti sul tavolo, spegnendo la lampada. Questa fu l'ultima cosa che ricordo.

 

Per una seconda notte fui sballottolato come un sughero in un mare di incubi. Dapprima ci fu completa oscurità e la sensazione di essere da lungo tempo morto, e molto morbido,intrappolato sotto terra mentre mi arrampicavo con le unghie verso la superficie, finché mi fui liberato della carne putrida del mio corpo e solo le mani emersero dalla terra. Quindi la scena cambiò e mi vidi giacere dove ero caduto sul tavolo, con il braccio sinistro e quella mano maledetta che pendevano dal bordo. Di nuovo sopraggiunse un intorpidimento al polso e la sensazione di fusione.

La cosa si staccò, atterrando sul pavimento dritta sulle dita, come un gatto che salta dalla cima di un tetto. Rimase lì come una cosa vivente - cosa che in realtà era - e ci fu un istante di confusione e disorientamento: fui strappato da dove mi trovavo, galleggiai, caddi, fluttuai verso l'alto nel calore, e poi mi trovai a guardare in alto un tavolo enorme con un gigante svenuto sopra di esso e il moncone di un polso sinistro che pendeva sopra di me.

La mia anima, io stesso, era ora prigioniera nella mano. Io non ne avevo il controllo. Un'altra mente era al lavoro. Seguendo una strada che le dita conoscevano, fui portato via dal tavolo e dal mio corpo, in una totale oscurità, mentre la mano passava attraverso una minuscola fessura nel muro. Non potei "vedere" altro finché io-noi-essa emergemmo all'esterno del castello. Nel frattempo, le sensazioni della punta delle dita sulla pietra umida erano intense, molto reali. Poi ci fu un'ampia panoramica della città e della campagna circostante viste dall'alto, e di una brillante luna piena nel cielo.

La mano voleva evitare la luce. Restava nell'ombra più che poteva mentre si arrampicava sull'esterno del muro, con ogni dito che cercava e trovava una presa sufficiente a sostenere il peso della cosa. Come un ragno mostruoso scivolò sulla pietra finché si trovò proprio sopra la porta attraverso la quale io ero per la prima volta entrato nel castello. Quando la presa si fu allentata, seguì uno spaventoso, terrificante salto attraverso lo spazio, poi un sobbalzo quando la mano atterrò dritta, come aveva fatto sotto il tavolo.

Camminò lungo la strada per la quale io ero salito, correndo veloce come un topo. Nonostante la distanza e la sua piccola dimensione, raggiunse con molta rapidità il cancello sprangato della città. Il cancello chiuso non costituì un ostacolo. I rozzi affioramenti delle mura della città erano sicuri come i pioli di una scala. Le scavalcammo con consumata abilità, ma ancora una volta ci fu un salto e le dita caddero la seconda volta nel fango.

Però la mano non si fermò. Le dita si aprirono, poi si chiusero spremendo il fango, quindi si aprirono come per nuotare finché le punte raggiunsero un terreno più solido. Questo lasciò il posto a una strada pavimentata, e le dita sporche si mossero in silenzio lungo le pietre, restando sempre nell'ombra più fitta.

La "vista" era una cosa confusa. A volte mi sembrava di vedere le cinque dita che lavoravano, come se fossi un minuscolo osservatore seduto proprio dietro le nocche, mentre, altre volte, la mano si fermava, alzava il dito indice come un'antenna, e io avevo un'ampia veduta di tutto.

Il mio io cosciente, Julian, l'uomo che era stato abbindolato, non aveva idea di dove noi/la mano intendessimo andare, ma c'era un indirizzo definito nel movimento delle dita. La mano arrivava a certi incroci dove il dito indice avrebbe cercato, poi io avrei preso una particolare strada, verso una specifica destinazione.

Infine arrivammo davanti a un miserabile tugurio stretto tra due edifici di mattoni. Dalla porta mancava un asse, e così la mano poté entrare senza difficoltà.

All'interno, lo zampettare, che non era certo quello di un topo, attraversò il pavimento, facendo un'ampia curva intorno ai carboni ardenti del braciere nel mezzo del pavimento. La luce lunare entrava attraverso il foro per il fumo nel tetto, e potei chiaramente distinguere una persona addormentata su un mucchio di stracci sul lato più lontano della stanza. Era la vecchia che trasportava la legna.

Furtivamente, la mano si insinuò attraverso la paglia, poi cominciò ad arrampicarsi sulla coperta cenciosa in cui lei si era avvolta, quindi salì sulla coperta fin sulla spalla. Il dito indice si raddrizzò - era di nuovo l'"occhio" della creatura - mentre il secondo e il terzo dito stringevano del tessuto tra di loro, come facevano il mignolo e il pollice. Con queste due prese la mano si inerpicò sopra di lei, poi strisciò sulle curve e sugli avvallamenti del suo corpo. Potevo sentire il battito del suo cuore sotto la punta delle dita mentre scendevo sui suoi seni, sulla clavicola...

Era ovvio ciò che era stato progettato. Volevo disperatamente fermarmi, chiudere le dita a pugno e cadere nella paglia, per gridare un avvertimento con tutto il fiato. Ma non avevo fiato. La mia voce e i polmoni erano rimasti al castello. Non avevo volontà, nessun controllo, mentre le dita scivolavano sulla gola della vecchia indifesa. Il sangue le batteva nel collo, ma la pelle sembrava pergamena.

All'improvviso, con forza furiosa, la mano si chiuse sulla trachea. Lei si svegliò, si mise seduta con gli occhi spalancati dal terrore, lanciò un unico grido gorgogliante e poi non riuscì a dire altro. Per un minuto si contorse nella paglia, colpendo selvaggiamente il suo invisibile assalitore e incontrando solo aria vuota, poi rimase immobile. L'orrore dell'evento non era semplicemente la morte o anche la mia incapacità a prevenirlo, ma il fatto che io avevo compiuto quell'azione. Mentre la mano la strangolava, sentii i muscoli di un braccio fantasma, il mio braccio, il braccio del mio corpo nel castello, che si sforzava per quell'azione. Sentii il peso del mio intero corpo che premeva sulla donna, spingendola giù finché il collo si ruppe come uno dei bastoni che lei trasportava.

Qualcuno si mosse in un'altra parte della stanza.

«Nonna? Sei tu?». Dei piedi nudi si mossero vicino al braciere, e una manciata di paglia fu accesa, poi fu portata nella mia direzione.

Vidi il viso di una ragazza mentre si chinava sulla nonna, e le contorsioni di repulsione e folle terrore alla vista della cosa ancora appollaiata sul cadavere. La luce si spense di nuovo quando la paglia cadde sul pavimento. La nipote gridò, ed ebbe in risposta delle grida dall'esterno.

All'istante la mano seppe cosa fare. Con incredibile agilità si arrampicò lungo il muro e uscì da un altro buco nel legno marcio. Poi seguì un volo nella fangosa strada posteriore e una corsa scomposta verso un'altra casa e su per un altro muro. Dall'alto di un vicino tetto si mise a guardare godendo malignamente: sì, c'era sicuramente il sentimento di quell'emozione nella seconda mente, unita alla mia, che non riuscivo a sfuggire.

«È accaduto di nuovo! Nonna!», cercava di spiegare agli altri la ragazza, attraverso lacrime isteriche. «Nekatu!».

Fu allora che arrivai a capire alcune delle strane cose di quella città.

 

3.

 

Non fu una sorpresa ma una terribile, disgustosa certezza, quando mi svegliai sul tavolo il mattino seguente e c'era del fango sulla mia mano sinistra.

Vendetta, aveva detto il Re. In questo modo egli si vendicava di coloro che lo avevano rovesciato. Non c'era da stupirsi che non vi fossero degli uomini in armi sui suoi bastioni: lui aveva un esercito di Nekatu che erano molto più mortiferi.

Mi misi in piedi barcollando e caddi subito. Le gambe non mi sorreggevano. Ero malato, esausto, come se avessi appena completato una grande fatica e compresi che, come il Re aveva detto, la mano stava cominciando ad assorbire la mia vita. Caddi in ginocchio, afferrando il bordo del tavolo con la mano destra, e lasciai che l'altro braccio pendesse inerte. La cosa sembrava addormentata. Ora, di giorno, il mio corpo era mio.

Apparentemente c'erano dei limiti. Dovevo restare vivo abbastanza a lungo perché quella cosa potesse appropriarsi della mia vita. Ci sarebbe voluto un po'. Avrei dovuto essere mantenuto vivo a lungo. Il vassoio poggiato dalle mani la notte precedente era ancora lì. Su di esso c'erano della carne fredda, pane e formaggio. Una tazza di vino era accanto a esso. Questo non c'era prima.

La colazione era stata apparecchiata per me.

 

Trascorsi il giorno esplorando il castello. Non potevo andare in città, dove avrei potuto essere ucciso a prima vista. Se fossi fuggito per la campagna, scendendo per una delle scogliere con solo una mano di cui fidarmi, non avevo dubbi che la mano avrebbe potuto riportarmi indietro o, come minimo, riservarmi lo stesso trattamento della vecchia. Avrei potuto, come ultima risorsa, gettarmi dalle mura o semplicemente rifiutare di mangiare finché fossi morto di fame, ma queste erano veramente le ultime risorse. Non è da guerriero - da qualsiasi guerriero - sia esso un Cavaliere cristiano o un selvaggio pagano, arrendersi prima che la battaglia sia intrapresa. Il nemico dev'essere affrontato, non importa quanto poche siano le possibilità di vittoria.

Così vagai per tutto il giorno per le sale in rovina del castello. Trovai una biblioteca piena di libri scritti in strani caratteri. Ce n'erano anche alcuni in latino, e a questi diedi un'occhiata. Per la maggior parte erano trattati di magia, di ogni epoca. Ce n'era uno con la dedica: «Al mio signore Nerone, che mi insegnò come iniziare». Lo stesso Nerone che aveva regnato poco dopo Cristo e aveva ucciso gli apostoli Pietro e Paolo. Da quanto tempo Re Tikos aveva perduto la sua vera mano? Di sicuro gli abitanti della città non erano i suoi sudditi, ma i loro lontani discendenti.

Quando il crepuscolo si avvicinò, seppi che i miei sforzi, per quel giorno, erano finiti. Un'altra notte di impotente orrore doveva seguire ma, prima che accadesse qualcosa, trascinai un braciere di fuoco che avevo trovato nella stanza dove c'era il tavolo di legno, poi raccolsi un po' di paglia secca, dei pezzetti di legno e alcuni pezzi di tappezzeria caduta. Volevo che il luogo fosse illuminato in modo che potessi vedere Tikos quando veniva a gettarmi il maleficio, e ucciderlo, se ne fossi stato capace. Avevo ancora la mia spada.

Durante la mia assenza avevano apparecchiato la cena. Mangiai mentre il familiare zampettio andava su e giù dietro le mura. Lunghe ombre passavano sul pavimento.

Ci furono dei passi dietro di me.

«Ah, ora che hai cenato, è tempo per un altro compito», disse Re Tikos.

Prima che potessi anche solo girarmi, la raffica fredda mi investì.

 

Molti morirono quella notte, ma non nella città sottostante. La missione fu molto più strana. Ero in compagnia di un'intera brigata di Nekatu,forse cinquanta. Insieme ci arrampicammo sull'esterno del castello, fino alla cima della torre. C'era uno stormo di falchi neri in attesa, immobili come dei doccioni scolpiti. Ogni mano salì sul dorso di un uccello, il pollice e il medio chiusi intorno al collo dei volatili, il resto aggrappato al corpo. Quella sensazione mi era molto familiare. Ho spesso avuto dei falconi.

Ci fu una discesa più terrificante di quella precedente mentre l'uccello che cavalcavo cadeva in giù, pesante per il suo fardello, lottando per volare. Muoveva le ali disperatamente, poi prese il vento e si alzò goffamente per unirsi agli altri, che sbandavano tutti allo stesso modo. Sotto, si svolgevano i campi e le colline. La luce della luna brillava su due fiumi. Ne seguimmo uno fino alla sorgente nelle montagne, oltre una foresta, poi sulle montagne finché arrivammo al castello di un qualche Signore. Gli uccelli attesero pazientemente sulle mura e sui davanzali mentre i loro passeggeri smontavano e andavano a compiere il loro compito. Questa volta le mani lavorarono in coppia, non necessariamente destra e sinistra, ma sempre in coppia. Io ero con un'enorme mano nera, in risposta alla mia domanda sui negri. Insieme arrivammo in una camera in cui un uomo e una donna dormivano. Ora la mano nera fece qualcosa di cui ero stato testimone la prima notte ma che non ero mai stato in grado di imitare. Fluttuò nell'aria, come se fosse attaccata a un corpo invisibile, così come avevano fatto quelle che avevano portato il vassoio. Tirò fuori una spada dal fodero che pendeva da una colonna del letto. Nel frattempo, la mia mano si stava arrampicando sul lato del letto, scalando una coperta. «Uno stadio più avanzato», aveva detto il Re. Un Nekatu che aveva ancora un corpo umano, un neofita come me, non possedeva ancora tutti i poteri concessi a quella diabolica fratellanza. Io non potevo ancora alzarmi e fluttuare. Dovevo strisciare.

L'omicidio fu compiuto. Io-la mano in cui ero intrappolato, strisciammo sul viso dell'uomo, poi mi strinsi fortemente sulla sua bocca mentre la mano nera gli tagliava la gola da un orecchio all'altro con la spada. La donna dormì per tutta la durata dell'azione, tanto rapidamente e silenziosamente fu portata a termine.

Nuovamente sentii il peso del mio intero corpo che si chinava sopra il letto, soffocando la vittima mentre il mio complice la uccideva.

La spada fu posata delicatamente sul pavimento e quindi tornammo sul davanzale dove montammo sulle nostre cavalcature stregate. Come se fosse un segnale, l'intero stormo prese il volo insieme, riportando l'esercito di Nekatu al castello del Re Tikos. Non mi fu detto, ma sapevo che quello a cui avevo partecipato non era l'unico assassinio di quella notte. In venticinque stanze delle mogli si sarebbero svegliate, fradice di sangue, e avrebbero gridato quando si fossero accorte che dividevano il letto con dei cadaveri ancora caldi. Poteva Re Tikos udire le loro urla? Si nutriva in qualche modo di terrore e di morte?

 

Ancora una volta mi trovai in quella stanza accanto al tavolo e vidi che una colazione era stata preparata per me. Dove prendeva il cibo? Le provviste non potevano rimanere fresche per tutto quel tempo. Mandava i Nekatu a rapinare macellai e panettieri? Bene: quella era la cosa più innocua che essi avessero mai fatto.

Mi odiavo mentre mangiavo. Era tutto quello che potevo fare per non vomitare mentre ricordavo ciò che era accaduto. Era ora, mi dissi, di saltare verso una facile morte, prima che altri innocenti perissero. Io non ero innocente. Avevo desiderato molte volte la morte. Ma poi venne il familiare terrore... Dopo la morte, dannazione, ci sarebbero stati i tormenti eterni che potevo sfuggire solo per quel breve momento che vivevo. Come tutti gli uomini, in fondo io sono un egoista. Sacrificherei il mondo intero per sfuggire all'Inferno anche per un breve momento. Mi potrei uccidere solo per un improvviso impulso di salvezza, più rapido del pensiero. Se ragionassi su cosa è buono, giusto, e la cosa morale da fare, dimenticherei tutto riguardo al bene, alla giustizia e alla moralità, e sarei paralizzato.

Quel giorno continuai a perlustrare il castello, sperando di trovare qualche cosa segreta con cui potermi giustificare.

E fui ricompensato. C'era una porticina sotto quella che, un tempo, era stata una lunga panca. Feci una torcia con del legno, con delle erbacce del giardino di un cortile e con degli stracci, l'accesi con la silice e l'acciarino della sacca che avevo alla cintura, e scesi in un sotterraneo a volte. Lì trovai dodici bare di pietra, ognuna di esse, stranamente, con un'apertura di circa una spanna tagliata sulla parte superiore.

No, non era affatto strano. Una spanna si misura allargando le dita di una mano.

Dentro c'erano dei Nekatu in "uno stadio di sviluppo più avanzato". Quando aprii la prima bara facendo scivolare il coperchio, quasi svenni alla vista, ma ripresi rapidamente coraggio. Lì giaceva un antico cadavere rinsecchito, poco più che pelle tirata sopra le ossa, tranne che su una delle braccia, la cui pelle raggrinzita fioriva in una perfetta mano vivente.

La furia dell'odio mi diede la forza. Lo feci a pezzi con la mia spada, tagliando la mano, tagliando ripetutamente finché le dita furono sparse e l'intero corpo una rovina. Il cranio si frantumò, e la cassa toracica si ruppe in schegge e pezzettini. Soltanto quando non rimase nulla di riconoscibile mi fermai, coperto dal sudore per l'umidità della volta, respirando pesantemente per la fatica. Dopo una pausa continuai con il successivo e lo distrussi completamente, ma più metodicamente.

Ero incoraggiato perché, mentre facevo questo lavoro, la mia mano sinistra era la mia mano sinistra. Faceva ciò che i miei muscoli comandavano e mi aiutava nel compito.

Quella notte, comunque, il Re apparve di nuovo dal nulla - ancora non avevo idea di come facesse - e altro malvagio lavoro fu compiuto. L'esercito di Nekatu fu mandato ancora fuori, e io notai, e mi disperai quando lo vidi, che alcuni di loro erano segnati da cicatrici ancora non perfettamente guarite. Uno o due persino "zoppicavano" mentre strisciavano sulle dita rotte. Ma fecero quello che il loro padrone chiedeva. Questa volta arrivammo in un monastero e, dopo aver rubato delle candele dall'altare della cappella, ciascun Nekatu s'insinuò in una cella e bruciò gli occhi del monaco che vi si trovava.

 

4.

 

Quando, in seguito, mi svegliai, la mia essenza vitale era talmente prosciugata che non riuscii ad alzarmi. Stavo diventando rapidamente debole. La mia carne si stava deteriorando. Già ero magro come un mendicante che muore di fame, sempre più simile ai cadaveri raggrinziti dei Nekatu nelle bare. Senza dubbio, ben presto sarei stato incapace di muovermi, e molte mani mi avrebbero sollevato e messo in una di quelle stesse bare.

Solo con uno sforzo estremo riuscii a strisciare fino alla sedia, a mangiare e a vivere per un altro giorno. Compresi che non sarei mai riuscito a gettarmi da un parapetto. Non avrei mai raggiunto il muro. Così rimasi seduto per tutto il giorno, mentre la luce del sole si muoveva da finestra a finestra lungo il lato sud della stanza.

Faceva molto freddo. In qualche modo, dopo un po', trovai la forza per alzarmi e accendere il braciere. Non riuscivo a pensare ad altro che al calore. Per il calore, nella mia miserabile condizione, avrei venduto la mia anima. Ma la mia anima era già prenotata, e allora dovetti provvedere per me stesso.

Così mi sedetti mentre la sera cadeva, poggiandomi contro lo schienale della mia sedia, la spada davanti a me sul tavolo, entrambe le mani in grembo, la destra sopra la sinistra, nella vana speranza di trattenerla. Accanto a me, il braciere scoppiettava e crepitava. L'odore del fumo era confortante: era il mio unico legame con le cose di questa terra? Quando la fiamma si abbassò, la riattizzai con un po' di paglia, tessuto, e schegge di legno marcio. Un mucchio di legna da ardere era a distanza di un braccio.

Il Re Tikos arrivò. Non entrò nella stanza: a un certo punto era semplicemente lì. Pensai che la macchia bianca nell'aria fosse uno scherzo dei miei occhi stanchi, ma essa crebbe e prese forma, e lui fu nella stanza con me. Le sue scarpe si mossero silenziose sul pavimento mentre camminava. Tutto, tranne che silenziosa, un'orda di Nekatu teneva il passo con lui procedendo sulle dita tese. Ce n'erano più di quanti ne avessi mai immaginati. Si riversarono dalle fenditure e dai buchi finché il pavimento ne fu coperto. Probabilmente erano un migliaio. Che sciocchezza pensare che il mio piccolo gruppo formasse un intero esercito!

«È giunta l'ora», disse il Re, «che il nostro fratello sia accolto completamente nella nostra compagnia. Per lui non vi sarà attesa nei sotterranei. Il Maestro verrà questa notte per prenderlo e trasformarlo».

Stava parlando alle mani, non a me. Io ero semplicemente un oggetto di cui occuparsi. Mentre parlava, camminava avanti e indietro, con i Nekatu che si muovevano di qua e di là dietro di lui, simili a migliaia di granchi che escono dal mare appena per il tempo necessario a divorare un marinaio affogato che le onde hanno gettato a riva.

«Dobbiamo aspettare, fratelli. Abbiate pazienza. Il Maestro verrà quando sentirà che è giunta l'ora. Nel mondo del Maestro, che si trova oltre il nostro, il tempo non è quale noi lo conosciamo. Io ci sono stato, mentre nessuno di voi lo ha fatto, e ho visto, quindi potete credermi. Le forme, i suoni e i colori, sono tutti meravigliosamente trasformati, irriconoscibilmente diversi. I sensi sono confusi. Uno ode il colore bianco, sente il dolce sapore del terrore. Un grido è come una soffice carezza all'interno del corpo. Lo spazio, il tempo e la distanza? Queste cose non esistono dove dimora il Maestro, non più delle profondità che esistono nel mondo di un disegno su una pagina di pergamena. Possono quelle figure alzarsi e uscire camminando dal loro libro? Il Maestro può. Anche voi e io ne saremo capaci, alla fine, quando anche questo mondo apparterrà al Maestro. Ecco perché lo venero. Ecco perché lui è più grande anche di Dio, che ha creato questo universo. Il Maestro cammina tra molti universi. Da dove vieni? Cammino avanti e indietro nella somma dei cosmi, e su e giù dentro di essa, tra i piani e gli angoli. Ecco perché il Maestro è il Maestro.

Eppure», continuò il Re, camminando avanti e indietro nella semioscurità in mezzo alle migliaia di mani senza corpi, «eppure io non temo il Maestro dove ora mi trovo, perché lui ha bisogno di me, per diventare concreto nel nostro mondo. Per assumere sostanza solida. E la parola fu fatta carne, e gridò tra di noi. Qui non è tanto potente quanto lo è nel vuoto tra i mondi».

Ascoltai tutto ciò con l'ottusa incomprensione di un maiale al macello che sente il discorso di due macellai. Sicuramente Tikos era pazzo per parlare di qualcosa oltre la sfera della terra, della luna e del sole che vi si muoveva intorno, e le stelle fisse oltre, nelle sfere del firmamento, ma quindi io ero sicuramente pazzo nel sognare quell'incubo in cui ora esistevo, e l'intero mondo era pazzo nel permettere che tali pensieri esistessero, e anche Dio era pazzo, come sapevo bene, per averlo creato in quel modo. E la Terra era senza modello e forma e l'oscurità era sopra l'abisso. Ah! Se soltanto il Padre fosse stato veramente saggio e non si fosse immischiato!

 

«Il Maestro viene!». L'aria si increspò, come spuma sul mare un istante prima che una grande balena salti dalle profondità. Per la prima volta Tikos mi parlò: «Guarda! Guarda, Sir Cavaliere, ascolta, e osserva l'ultima cosa che osserverai con occhi e orecchie mortali. Stanotte, in questa notte fatale, l'ultima della luna di settembre, il Maestro verrà in questa stanza e tu sarai in nostro potere. Nostro. Io sono parte del Maestro. Questo è l'ultimo segreto. Ora, come ti avevo promesso, sai veramente il significato della parola Nekatu. Un messaggero, un servo del Maestro, un dito della sua mano».

Letteralmente. Mentre guardavo, il biancore nell'aria ritornò e circondò il Re. Lui rimase immobile. Un migliaio di mani si fermarono su cinquemila dita. Quattro colonne bianche cominciarono a materializzarsi intorno a lui e, mentre così facevano, egli perse la sua forma. Fluttuava, le braccia si univano al suo corpo, e le due gambe diventavano una. Come la cera. Come una candela. Accesa. Fuoco. Oscuramente, quell'associazione mi si formò nella mente.

Un dito del Maestro. Esattamente. Ciò era quello che lui era diventato. Le altre quattro dita apparvero accanto a lui, e lui - il dito indice - fu sollevato dal pavimento mentre il Maestro si alzava. Il Maestro era una mano enorme, quella di un gigante alto come il castello, se vi fosse stato il corpo. Qualcosa che proveniva, attraverso l'aria, da un mondo invisibile che coesisteva con il nostro.

La mano si arrampicò sul tavolo. Era della grandezza di un cavallo. Il legno scricchiolò sotto il suo peso.

Il tempo sembrò sospeso e, nella mia astrazione, notai una cosa strana. Il dito che era stato Re Tikos aveva intorno un cordone rosso. Il Maestro era una sorta di Nekatu di un mondo più grande, non completo senza il dito animato che era il Re, o che lui era diventato? Era questo l'ultimo contratto a cui il menomato e bandito Re si era sottoposto tanto tempo fa? Attraverso il quale si era procurato una continua vendetta?

Uniti insieme, cantava una voce nel fondo della mia mente. Candela. Cera. Legati. Fuoco. Cera. Fuoco.

Ora la mia mano sinistra, quella che era Nekatu,aveva ripreso vita. Il resto del mio corpo era troppo debole per obbedire a qualsivoglia comando, quindi la mano fu sul tavolo, strisciando verso l'estremità dove il Maestro stava sulla punta delle dita a un piede di distanza, trascinandomi con sé. Ora la mia coscienza era completamente nella mia testa. La mano non aveva bisogno di me, e si muoveva da sola.

Così fui trascinato avanti, verso la stretta del Maestro.

Mi chinai in avanti. Il mio mento toccava l'elsa della mia spada, che stava ancora sul tavolo davanti a me. Con una forza impossibile la mano Nekatu mi stava trascinando via dalla sedia, sul tavolo. Oltrepassò la lampada a olio rovesciata la prima sera.

Fuoco. Cera. Fusione.

Nelle più remote regioni della mia mente, dove i pensieri ancora erano miei, mi venne l'idea. Risi per la sua brillantezza. Ero completamente distaccato, e la mia coscienza fluttuava. Ciò che stava accadendo non si stava verificando realmente. Era un esercizio intellettuale. Ero sempre stato bravo in cose come gli scacchi.

C'era tutto il tempo del mondo per riflettere attentamente. Presto, un giorno o l'altro, avrei provato...

Mi persi completamente per un istante e fui nella mano Nekatu,trascurato, ma sentendo l'attrazione del Maestro, il richiamo all'unione, una specie di lussuria... E fui nuovamente me stesso... In meno di mezzo secondo, i pensieri, le piccole voci, si fusero, si rivoltarono, e si avvitarono su se stesse. Fuoco. Cera. Fuoco. Candela. Fuoco. Fuoco. Fuoco...

L'inaspettato: uno stratagemma contorto... Scivolai nuovamente nell'oscurità, fui nella mano per un tempo più lungo, e il richiamo era molto, molto più forte. Poi ritornò, forse per l'ultima volta, nel corpo e nella mente dell'uomo Julian... Lo stratagemma contorto: mentre tutta l'attenzione era sulla mia mano sinistra, il Nekatu,la mano destra stava facendo qualcosa.

Nel regno dell'astrazione filosofica, distaccata dal tempo e dallo spazio, come un interessante esercizio, le dita della mia mano destra,la mia mano umana, si strinsero intorno all'elsa della mia spada che stava lì, sulla tavola.

Con un improvviso tonk! la mano destra portò la spada in alto, intorno e in basso, lasciandola cadere sul piano del tavolo, e mirando alla mano Nekatu,ma goffamente. La mancò per un'ampiezza minore della lama.

La mano si fermò, spaventata. Il Maestro rimase lì impassibile. I mille Nekatu sul pavimento rimasero immobili.

La presa sul mio braccio sinistro si allentò per un istante. Ero libero! Il mio corpo cadde all'indietro nella sedia e, con uno sforzo disperato, gettai la mano sinistra nel braciere fiammeggiante.

La mano Nekatu si ritrasse. Il Maestro inciampò all'indietro e cadde dall'estremità del tavolo, atterrando sul pavimento con un pesante tonfo, schiacciando quelli che stavano sotto di lui. Ora, una mano senza vita che si ferisce durante il giorno non sente niente, ma una vivente, di notte, è diverso, e il Maestro dirige tutte le sue mani, sentendo quello che loro sentono.

Sentendo quello che io sentivo. La mano non cercò la mia gola. Il Maestro ora si contorceva nell'agonia di coloro che aveva schiacciato cadendo e io, legato a loro in quanto Nekatu,provavo la stessa sensazione.

Fu per la furia di quel dolore che riuscii a mettere la mia mano sinistra sul piano del tavolo, poi, con la destra, con la spada che ancora stringevo, sferrai il colpo più potente di tutte le battaglie dell'umanità. Con esso, avrei potuto abbattere intere città. La lama si abbatté sul polso, proprio nel punto dove esso si univa alla mano Nekatu. Ne seguì un vero dolore. Mi ero separato dal Maestro: era sangue mortale quello che ora fluiva dal moncone. Solo il mio sangue.

Gridai e, nel gridare, ritornai completamente in me. Ormai nel mezzo della battaglia, l'istinto prese il sopravvento. Il Maestro si raddrizzò ancora una volta, tremando sulle sue pallide dita molli, e cominciò a ritornare strisciando verso il tavolo. Gli scagliai contro il braciere, e lui si ritrasse nuovamente dalle fiamme. Sollevai il tavolo con il moncone sanguinante e la mano che stringeva ancora la spada, e glielo rovesciai contro. Quindi rinfoderai la spada e gettai manciate di legna sul mucchio. C'era dell'olio rimasto nella lampada che ora ne usciva, e mantenne acceso il fuoco finché questo prese il legno.

Nel frattempo i Nekatu erano rimasti immobili sul pavimento, in attesa di ordini. Li calpestai con le mie scarpe ferrate.

E intanto il sangue sgorgava dal mio braccio sinistro. Fu solo quando caddi in avanti, al limite delle fiamme che ora lambivano il tavolo rovesciato, che mi accorsi che la mia morte stava per giungere. Ancor oggi mi sorprendo per ciò che fui in grado di fare: una cosa tanto razionale come allungare il braccio sanguinante, costringendomi a tenerlo sul fuoco per far chiudere la ferita. Quel nuovo dolore, in un certo senso, mi diede abbastanza forza da farmi alzare in piedi, scendere barcollando le scale a chiocciola e uscire dalla porta e dal castello.

Ero folle. Gridavo. Ululavo. Ridevo. Ero tanto lontano da me stesso quanto lo ero stato nelle missioni di mezzanotte dei Nekatu. C'era quella remota parte di me che sapeva cosa stava accadendo, ma il resto era in preda a una frenesia di dolore, paura e furia poco meno che animali.

Voi credete nei miracoli? Dite di no! Ogni parola è una bugia! Voi lo sapete!

Non fu un miracolo il fatto che, quando arrivai alla fine della strada della montagna, con il castello che bruciava furiosamente dietro di me, la gente della città aprisse i cancelli e mi lasciasse passare. «È morto», dissi, non sapendo nemmeno se il Maestro potesse morire. Penso che mi temessero più del Re Tikos. Penso che mi presero per qualche nuovo demonio più terribile del vecchio. Aprirono il cancello prima che lo incenerissi con un fulmine. Poi riportarono il mio cavallo. Per placare la mia ira? Per disfarsi di un temibile saggio prima che la sua ignota volontà fosse conosciuta? Videro il mio polso ferito, capirono che non ero più un Nekatu,e videro la luce accecante del castello. E questo non fu un miracolo?

Non fu un miracolo che mi trovassi, quando per la prima volta dopo un tempo molto lungo riuscii a pensare in modo coerente, a cavalcare attraverso i campi verso l'ovest, via dalla città, oltre le montagne, in un luogo che un tempo avevo spiato dall'alto, in quello che sembrava un sogno?

E cos'altro poteva essere stato, se non un miracolo, che mi portò, infine, in un monastero di monaci ciechi, che scoprirono al tatto la ferita del mio braccio, e dissero: «Guardate, fratelli, lui soffre nel nostro stesso modo», mentre mi mettevano a letto e si accalcavano per prendere le medicine?

In seguito, quando fui nuovamente ridotto a mendicare, mi trattenni dal narrare storie, per timore di distrarmi e di raccontare, per caso, come persi per due volte la mano sinistra.

 

RAMSEY CAMPBELL

Verso casa

 

La prima antologia di storie brevi di Ramsey Campbell, The Inhabitant of the Lake, apparve quando era ancora adolescente. Come se ciò non fosse abbastanza scioccante per i suoi rivali, la sua produzione, da allora, ha incluso raccolte di storie come The Height of the Scream, romanzi come The Doll Who Ate His Mother, e antologie come Superhorror, che lo hanno reso un leader senza rivali in questo campo. Verso casa è la storia più corta di questa antologia, ma provoca lunghissimi brividi...

 

Da qualche parte, di sopra, senti parlare tua moglie e il giovanotto. Ti sforzi di sollevarti, i tuoi muscoli tremano come l'acqua, e riesci a spostare il tuo instabile equilibrio sullo scalino seguente.

Pensano di averti ucciso. Non si sono nemmeno preoccupati di chiudere la porta della cantina, ed è il filo di luce tremolante attraverso la fessura che stai cercando di raggiungere. Nessun altro sarebbe sopravvissuto. Lui deve averti trascinato dal laboratorio nella cantina, e poi ti ha scaraventato giù per le scale, dove sulla pietra impolverata hai riacquistato conoscenza. La tua guancia sinistra sente ancora la trave rigida che ti è entrata nella carne, nel punto in cui essa ha colpito il pavimento. Ti fermi sul gradino che hai raggiunto, e ascolti.

Ora stanno zitti. Dev'essere notte, poiché hanno acceso nel corridoio la lampada la cui fiamma si intravede dalla cantina. Non hanno intenzione di lasciare la casa prima di domani. Puoi solo indovinare cosa stiano facendo ora, mentre pensano di essere soli in casa. Le tue labbra insensibili si spaccano ulteriormente appena sogghigni. Che si divertano finché possono.

Non ti hanno lasciato molti muscoli che tu possa usare; è stato un lavoro accurato. Non c'è da stupirsi che si sentano al sicuro. Ora ti devi concentrare su quei muscoli che funzionano ancora. Vacillando, riesci momentaneamente a metterti in una posizione dalla quale puoi afferrare saldamente il gradino più in alto. Lo afferri a tuo vantaggio. Poi, spingendo con quei muscoli che avevi quasi dimenticato di avere, riesci ad alzarti su un gradino più alto.

Ti muovi finché non riesci a stare seduto diritto. In questa maniera c'è meno pericolo di perdere l'equilibrio in un attimo e ruzzolare giù sul pavimento della cantina da dove, ore fa, hai iniziato ad arrampicarti. Ora ti riposi. Solo altri sei gradini... Ti chiedi ancora come si siano conosciuti. Certamente avresti dovuto saperlo che la cosa andava avanti da tempo, ma tu eri preso dal tuo lavoro, e non potevi dedicare tempo a sorvegliare la donna che avevi sposato. Avresti dovuto capire che, quando si fosse recata nel paese, avrebbe incontrato gente e non sarebbe stata silenziosa come a casa. Ma la sua camera poteva essere lontana dalla tua stanza tanto quanto il paese lo è dalla casa; non ti sei neanche dato molto pensiero per la gente.

Non è che ti biasimi. Quando la incontrasti - nella città dove frequentavi l'Università - pensasti che lei capisse l'importanza del tuo lavoro. Non fu come se tu avessi voluto ingannarla. Fu solo quando lei cercò di distrarti dal tuo lavoro, in cerca di gratificazione e perché ne aveva paura, che attraverso il silenzio la privasti della tua compagnia.

Riesci a sentire ancora le loro voci. Sono al primo piano. Non sai se stanno festeggiando o se si stanno confortando a vicenda mentre la colpa li attanaglia. Non importa. Purché lui non abbia chiuso la porta del laboratorio quando è ritornato dalla cantina. Se è chiusa, tu non sarai mai in grado di riaprirla. E, se non puoi entrare nel laboratorio, in fondo ti ha ucciso. Ti sollevi, i tuoi muscoli tremano per lo sforzo, e la guancia si irrita a contatto con il legno della scala. Non ti rilasserai finché non vedrai la porta del laboratorio.

Stai per raggiungere l'ultimo scalino quando scivoli. Il mento ti si abbassa e scivola all'indietro. Stringi lo scalino di legno con le mascelle, sentendo delle schegge piantarsi tra i denti. Il collo struscia sullo scalino più in basso, ma ha perso ogni sensibilità tranne che per un leggero dolore che lentamente si attenua. Solo le tue mascelle ti evitano di cadere all'indietro da dove hai iniziato, e stanno pulsando come se dei chiodi vi venissero piantati con colpi misurati. Le serri, mentre battono per il dolore, poi getti il tuo peso sull'ultimo scalino. Traballi per un momento, poi sei ben saldo.

Ma ancora non ti fermi. Ti accosti piano piano in avanti e ti raddrizzi in modo da poter sbirciare fuori dalla cantina. La sagoma della porta del laboratorio ondeggia leggermente mentre la lampada trema. Ti viene in mente che hanno acceso la lampada perché lei ha paura di te, che giaci morto oltre la scala... come lei crede. Ridi silenziosamente. Te lo puoi permettere. Quando la fiamma si ferma riesci a vedere, per qualche pollice, l'oscurità intorno alla porta del laboratorio.

Ascolti le loro voci al piano superiore e ti riposi. Sai che lui è un macellaio, perché una volta aiutò uno dei domestici a portare la carne dal paese. Ad ogni modo, avresti capito la sua professione da quello che ti ha fatto. Sei ancora sbalordito che lei si sia potuta mettere con lui. Da quel poco che sapevi della gente del paese eri contento che evitassero sempre la casa.

Ricordi il giorno in cui il nuovo prete visitò la casa. Sapevi che aveva sentito tutti i racconti più strani circa i tuoi esperimenti; fosti sorpreso per il fatto che non cercò di tenerti lontano con una croce. Quando scoprì che potevi metterlo alle strette sulle sue argomentazioni teologiche, se ne andò, con una smorfia che rese storto il suo sorriso. Cercò di persuadervi entrambi a frequentare la chiesa, ma tua moglie rimase seduta in silenzio per tutto il tempo. Fu allora che tu decidesti di fidarti di lei e mandarla in paese. Avevi licenziato i domestici, ma ti dicesti che sarebbe stato meno probabile che lei parlasse. Sorridi con ferocia. Se fossi stato altrettanto poco preciso nei tuoi esperimenti, ora saresti morto.

Al piano di sopra stanno ancora parlando. Oscilli in avanti e cerchi di incunearti tra la porta della cantina e lo stipite. Con il tuo controllo limitato è difficile, e ti ritrovi chino nella fessura senza alcun appoggio sul legno. Il tuo peso non ha mosso la porta, che è più pesante di quanto tu abbia mai avuto occasione di capire. Alla fine riesci a incunearti nella fessura, afferrando lo stipite con tutta la tua forza. La porta si ferma su di te, e tu puntelli goffamente il tuo peso contro di essa.

Essa si apre leggermente cigolando sui cardini, poi oscilla all'indietro, schiacciandoti. È stata montata male, e restava sempre un po' aperta; non aveva mai costituito un problema per te. Ora la forza che lui ti ha lasciato, anche se concentrata come la luce in uno specchio ustorio, sembra inadeguata a spostare la porta. Incastrato nella fessura, ti rilassi per un momento. Poi, come se l'afferrassi casualmente, chiudi le tue mascelle sullo stipite e dai una spinta contro la porta, spingendoti in avanti mentre essa si apre. Ma quella torna indietro, in risposta alla forza della tua spinta, e tu sei ancora lì. Stai ancora cadendo nel corridoio e, quando la porta ritorna verso lo stipite, cadi all'indietro, oltre il punto in cui arriva la porta.

Sei fuori dalla cantina ma, sulla schiena, sei indifeso. La porta è più mobile di te. Tutti i muscoli che hai usato possono soltanto muoversi inutilmente e annaspare nell'aria. Stai steso fuori sul pavimento del corridoio come un soggetto da laboratorio, sotto la fiamma fissa.

Poi senti il macellaio dire a voce alta a tua moglie: «Vado a vedere», e quindi iniziare a scendere al piano di sotto.

Cominci a contrarre freneticamente tutti i muscoli della parte destra. Rotoli un po' verso questo lato, poi le tue contrazioni incontrollate ti fanno oscillare all'indietro. La luce vicino a te trema, giocando alla tua ombra uno scherzo crudele nel farle raggiungere quella posizione per la quale stai lottando. Ora lui è a metà della strada. Di nuovo fai lavorare la tua parte destra e tieni i muscoli immobili quando inizi a girarti da quella parte. Improvvisamente sei andato oltre il tuo punto di equilibrio e ti ritrovi a giacere sul fianco destro. Sforzi i muscoli doloranti per avanzare di poco, ma il laboratorio è distante alcuni metri e tu non ti stai affatto muovendo in linea retta. I suoi passi risuonano. Senti la voce terrorizzata di tua moglie, che lo supplica di ritornare da lei. C'è un lungo, ponderato silenzio. Poi lui torna rapidamente al piano di sopra.

Non ti permetti di riposare finché non sei dentro al laboratorio, sebbene il dolore già sembri una fredda superficie rigida all'interno del tuo corpo e la tua bocca un buco polveroso nella pietra. Una volta oltre la porta rimani immobile, guardandoti intorno. La luce della luna va dalla finestra alla porta. Il tuo sguardo cerca il banco da lavoro dove stavi lavorando quando lui ti trovò. Non ha tolto alcun oggetto gettato a terra dalle tue convulsioni. Scintillante sul pavimento vedi un ago e, accanto, il filo da chirurgo che non hai mai avuto occasione di usare. Ti rilassi per prepararti al prossimo sforzo che intendi fare, ricordando.

Ricordi il giorno in cui perfezionasti la soluzione. Appena la trangugiasti, sentisti il cervello raggiungere uno stato di acuta vigilanza, divenire precisamente e a lungo consapevole dei messaggi di ogni nervo e comandarli, facendo piccole correzioni al primo cenno di pericolo. Sapevi che questo era quello per cui avevi lavorato, ma non potesti provarlo a te stesso fino al giorno in cui sentisti il nascere del cancro. Da quel momento, il tuo cervello sembrò concentrarsi in un intenso fluido di energia che si allungò in basso e bruciò completamente il cancro. Quella era la prova. Eri immortale.

Non che alcuni esami non fossero stati spiacevoli. C'erano volute un sacco di furtive visite agli obitori per scoprire che alcuni degli estratti di cui avevi bisogno per la soluzione dovevano essere presi dai cervelli viventi. Gli abitanti del paese pensavano che i bambini fossero affogati, poiché i loro vestiti furono ritrovati sulla riva del fiume. Il progresso medico, dicevi a te stesso, ha sempre creato sofferenza.

Forse tua moglie sospettava qualche cosa di questa fase del tuo lavoro o forse loro avevano deciso semplicemente di sbarazzarsi di te. Stavi lavorando al tuo tavolo, cercando di sintetizzare la tua scoperta, quando lo sentisti entrare. Dovette avventarsi su di te poiché, prima che ti potessi voltare, sentisti un violento colpo abbattersi dietro, sul tuo collo. Poi ti risvegliasti sul pavimento della cantina.

Avanzi lentamente attraverso il laboratorio. Il tuo più grande sforzo è compiuto, ma questa è la parte più impegnativa. Quando stai quasi toccando il tuo corpo bocconi, ti devi voltare. Ti muovi con le mascelle e dai la direzione con la lingua. È difficile, ma meno che metterti dritto sul collo con la lingua per riposarti sulle scale. Poi ti sistemi sulle spalle, brancolando con la tua mente perfetta finché senti i nervi collegarsi nuovamente.

Ora dovrai tenerti saldo oppure i pezzi si separeranno. Con la tua mente puoi farlo. Con cautela, così da non disgiungerti, allunghi la mano e tocchi l'ago e il filo chirurgico.

 

LISA TUTTLE

Nella galleria

 

Tra appena mezza dozzina di anni da quando scrivo questa introduzione, il 1984 sarà passato. Sarà di proprietà di storici, statistici e di persone comuni: nutrimento per la nostalgia. Sapremo il titolo dei suoi libri più venduti, i suoi movimenti finanziari di successo, il personaggio più popolare delle sue serie televisive. Sarà stato l'anno delle elezioni presidenziali in America, e si saprà chi le ha vinte e chi le ha perse, così come noi sapremo i vincitori e i vinti dei giochi olimpici di quest'anno, e i trionfi o le sconfitte di vari campionati sportivi. I capricci del 1984 saranno scomparsi o avranno mostrato una notevole longevità. La musica popolare svanirà dalle nostre orecchie e dai nostri ricordi... ad eccezione di quel fortunato, piccolo gruppo che verrà chiamato "Golden Oldies". L'anno, un tempo spauracchio del fantasista distopico, sarà passato, e la sua realtà, immaginiamo, farà parte della fantasia con, sospettiamo, non poca ironia. Sarà la tirannia dei nostri incubi contro quella tirannia, più comune e familiare, con la quale viviamo giorno dopo giorno e che appena notiamo. Lisa Tuttle scrive nuove e brevi storie che si occupano argutamente di questa tirannia quotidiana, e noi ve ne offriamo una per soddisfare il vostro interesse. Tra l'altro, Tuttle viene dal Texas e, sebbene il fatto che sia alta meno di tre metri sembri smentire le leggende riguardo a questo Stato, non credeteci. Il suo talento è genuinamente gigantesco.

 

Eula Mae si svegliò. Sollevò il lenzuolo dal corpo sudato e si sedette. Ragazzi, che caldo! La luna entrava direttamente nella stanza attraverso la finestra senza tende, formando una chiazza sul letto e conferendo alle lenzuola bianche un chiarore quasi fosforescente contro la sua pelle scura.

Mise le gambe oltre il bordo del letto. Era strano essere svegli a notte fonda. Tutto era così immobile. Suo marito dormiva silenziosamente nella sua metà del vecchio letto dalle molle rotte. Eula Mae si chiese cosa, in tutto quel silenzio, potesse averla svegliata.

Era strano essere svegli mentre tutti dormivano. Non pensava che le fosse già accaduto prima. Tornare a dormire le sembrò, in quel momento, la cosa più ragionevole da fare, ma non aveva il benché minimo sonno. Si alzò e andò alla finestra. Quella luna era certamente grande, luminosa e bassa nel cielo.

Poggiò i suoi morbidi palmi sul ruvido davanzale della finestra con la pittura che veniva via, infilò la testa sotto il vetro, e si sporse fuori nella notte. Nessuna luce brillava dalle fatiscenti abitazioni che fiancheggiavano la strada, e solo due lampioni erano accesi: gli altri erano inutilmente spenti, con le lampadine frantumate dai ragazzi o da qualche ubriaco arrabbiato. Niente si muoveva. Non c'erano rumori. Eula Mae aggrottò leggermente la fronte e si mise in ascolto. Quella calma non era naturale: ci sarebbe dovuto essere qualche rumore, anche solo il mostro distante del traffico che si faceva sentire. Forse tutti e tutto dormivano senza sogni? Non era naturale; era l'immobilità di una macchina ferma, non il sonno irrequieto di una città. Si sforzò di sentire qualche rumore che si aspettava di udire.

Ecco! Era forse...? Ma ora Eula Mae non era certa. Aveva sentito quel debole ronzio, oppure aveva solo sentito il sangue e il respiro che attraversavano le strade del suo corpo?

Eula Mae sospirò profondamente e si chiese quanto mancasse al far del giorno. Non avrebbe più dormito quella notte. Spostò il peso del corpo da un piede all'altro, e alzò gli occhi verso la luna.

La sua vista la scioccò, e scosse il centro delle cose. Il mondo conosciuto, il suo mondo, cessava di esistere. La luna era sempre stata là, l'aveva guardata quasi ogni notte della sua vita. E ora alzava lo sguardo e non vedeva affatto la familiare luna, ma un simulacro, una falsità, una luna da palcoscenico: una luce. Né era quello il cielo della notte nel quale essa brillava: attaccato a un invisibile soffitto, la luce brillava verso il basso attraverso delle strisce di tessuto blu scuro. Gli orizzonti familiari divennero limitati e strani. Se quella non era la sua luna, questa non poteva essere la sua città. Dove si trovava?

«Howard», disse tristemente, voltandosi di nuovo verso la stanza. Un grido di aiuto. «Oh, Howard, svegliati».

La forma silenziosa non si mosse. Eula Mae si sedette sul bordo del letto che si curvò ulteriormente sotto il suo peso e poggiò la mano sulla spalla nuda di suo marito. La pelle di lui era liscia e fredda.

Le sue labbra formarono ancora il nome di lui, senza parlare. All'improvviso aveva capito che cosa era così innaturale riguardo alla sua immobilità: non respirava.

Gemette e cominciò a scuoterlo, cercò di scuoterlo fino a riportarlo in vita, in modo che si riprendesse, sapendo che era inutile.

Oh, Howard... Howard... Howard...

Lui giaceva lì come un bambolotto, come la testata del letto, immobile, liscio e freddo. Lui era in qualche luogo, lontano dal vicino calore della stanza.

Eula Mae sedette con le mani appoggiate sul corpo del marito. Le lacrime le scorrevano sul viso. Non si mosse. Forse, se fosse stata abbastanza forte, sarebbe andata dove si trovava Howard. Ma i singhiozzi vennero dal profondo, le torsero il corpo, la scossero.

Poi la paura prevalse. La paura la fece alzare dal letto (lentamente, cercando di non urtare il corpo), e sempre la paura la fece smettere di piangere. Doveva andare da qualche parte, doveva stare con qualcuno. Rovistò nel grande armadio di metallo, cercando il suo vestito da casa pulito, ma ci voleva del tempo, e la porta curva dell'armadietto continuava a oscillare verso l'interno, colpendola: la paura prese il sopravvento. Doveva uscire fuori. Pensò ai bambini, che dormivano nella stanza vicina. Li avrebbe presi e sarebbe andata a casa della sorella.

La stanza era dominata dal grande letto nel quale dormivano i bambini. Eula Mae si accorse che qualcosa non andava non appena varcò la soglia. Non c'era nessun rumore. Il solito russare di Taddie a causa delle adenoidi, non rompeva il silenzio: nessuno di loro, infatti, stava respirando. Si costrinse ad andare vicino al letto, ma non riuscì a toccarli. Se li avesse toccati, sentiti senza vita sotto le sue dita, sarebbero diventati sicuramente degli estranei.

I fatti erano quasi fin troppo chiari per porsi delle domande. Si chiedeva solo perché a lei, tra tutti loro, era stato permesso di svegliarsi. La sua mente cercava nervosamente, quasi a prescindere dalla sua volontà, una preghiera che avrebbe avuto un significato.

Al piano di sotto vivevano alcuni amici. Poteva andare da loro. Il chiavistello della porta principale faceva resistenza, come sempre, ma stanotte sembrava una resistenza sinistra, che la chiudeva deliberatamente in uno spazio dove ogni cosa un tempo familiare era diventata qualcosa di malvagio. Infine la porta si aprì, cigolando lamentosamente, e lei corse giù per le scale che aggredirono i suoi piedi con le loro bocche piene di schegge.

«Annie! George!». Batté con forza sulla loro porta. La sua voce rimbalzò da muro a muro nel corridoio male illuminato e ritornò alle sue orecchie, sottile e strana, spaventandola a tal punto che chiuse la bocca e usò solo i pugni per chiamare aiuto.

Nulla! Eula Mae aveva paura di uscire fuori nella notte irreale, illuminata dalla finta luna - quell'edificio era, perlomeno, un rifugio conosciuto - ma non poteva stare lì tra i morti. Sua sorella Rose Marie abitava appena all'inizio della strada, in un'identica casa popolare, in un appartamento di due stanze quasi identico. Sua sorella Rose Marie l'avrebbe fatta entrare.

Eula Mae sentì un rumore di qualcosa che si muoveva. Scarafaggi. Stranamente, quel rumore era rassicurante. Era familiare; significava la vita lì, in quel posto dal silenzio mortale.

Scese in strada senza alzare lo sguardo. La testa iniziava a farle male. Si mise le mani sulla fronte, dove il dolore sembrava concentrarsi, e avvertì la sensazione familiare di un trapano a sei punte. Tolse in fretta le dita, poiché il loro tocco sembrava esacerbare il mal di testa. Si ricordò di un programma radiofonico che aveva ascoltato una volta circa una donna che era caduta, aveva battuto la testa e poi aveva dimenticato tutto: chi era e dove viveva. Le poteva essere successo qualcosa del genere? Ma cosa avrebbe dovuto dimenticare che poteva dare un senso a tutti quei cambiamenti nel suo mondo?

La porta dell'edificio di Rose Marie era sempre aperta, e Eula Mae entrò nervosamente nell'ingresso piccolo e stretto. La cassetta della posta, sul muro destro, era stata spaccata e resa metallo inutilizzabile, e lei, ogni volta che andava lì, temeva che, un giorno, chiunque avesse frantumato quelle cassette sarebbe stato lì, in attesa, per frantumare anche lei.

Come sempre, sfuggita ancora una volta alla distruzione, Eula Mae corse su per le scale scricchiolanti più velocemente che poté, senza inciampare.

Nessuno rispose al suo chiamare o al suo bussare. Nessuno nell'appartamento di sua sorella, e nessuno che saliva o scendeva, sebbene il rumore si dovesse udire per tutto l'edificio dai muri sottili. Erano andati via tutti? Erano spaventati? Sordi? Potevano essere tutti morti?

Infine Eula Mae entrò nell'appartamento di sua sorella. Non fu difficile: Eula Mae era una donna dalla corporatura potente, sebbene non pensasse a se stessa come una donna fisicamente forte.

La stanza principale era piena di bambini. In un lettino stretto ce n'erano due, e il resto stava su dei materassi sul pavimento. Eula Mae si fece strada tra loro. Non sentiva nessun respiro, ma non voleva investigare ulteriormente.

Una tenda separava la stanza principale da quella di Rose Marie e di Jimmy. Eula Mae si spinse oltre la tenda e udì il rumore benvenuto di un leggero russare.

Il suo cuore sussultò di gratitudine. «Rose Marie? Jimmy? Svegliatevi!».

L'esile, sibilante russare continuò indisturbato. Eula Mae si avvicinò al letto. «Ehi, alzatevi!», disse a voce alta, e si curvò sulla sorella.

Ma nessun respiro usciva dalle narici di Rose Marie, e nessun battito disturbava le arricciature di nylon rosa del suo negligé. Jimmy stava russando: dormiva accanto a sua moglie morta. Eula Mae ne fu indignata e si chinò oltre il corpo di sua sorella per scuotere vigorosamente il braccio di Jimmy.

«Tu! Svegliati! Smettila di russare e ascoltami! Mi senti? Svegliati!».

Non si modificò nemmeno il ritmo del suo russare. Dormiva, irraggiungibile come Rose Marie.

Eula Mae si raddrizzò e si lasciò ricadere le braccia lungo il corpo, comprendendo che era completamente sola. Era abituata a prendere decisioni, a governare la sua vita e quella di altre persone, ma non si era mai trovata sola e in una situazione che decisamente non sapeva come gestire.

Tornò nell'ingresso che puzzava di resti di cibo dimenticati da tempo, e scese le infide scale, fino alla strada deserta. Avrebbe cercato di trovare qualcuno, chiunque, un qualsiasi amico o estraneo che l'assicurasse che non era l'unica persona rimasta viva; poi avrebbero deciso cosa fare.

Mentre percorreva le strade silenziose si ricordò di qualcosa che le aveva detto suo fratello minore. Avrebbe potuto essere un'altra delle storie che lui amava inventare - solo un'altra delle sue innumerevoli storie dell'orrore riguardo all'onnipresente Whitney - oppure poteva essere vera.

«Hanno un gas», disse. «Lo convogliano nelle stanze e uccidono tutti. Ci dicono qualcosa come, "questa direzione per le docce" oppure, "aspetta in questa stanza l'arrivo del dottore" e poi», i suoi occhi scintillarono, «poi passano un tubo sotto la porta, oppure pompano il gas all'interno attraverso dei tubi nelle aperture e... zac... tutti sono eliminati. Morti».

Eula Mae era rimasta un po' impaurita da lui, quando glielo raccontò: a lui il racconto era piaciuto molto; aveva assunto un'espressione di maligna soddisfazione e un'aria astuta, niente affatto come il suo amato fratellino.

«Questo è il modo in cui l'Uomo risolve il problema dei negri», aveva detto allegramente. «Li mette tutti a dormire, come i cani rabbiosi».

Quando tornò alla realtà, Eula Mae si rese conto di essere andata molto più lontano di quanto avesse pensato possibile. Era uscita dalla città ed era entrata nella campagna. Era uscita dal cemento per trovarsi in una strada di terra battuta, e si guardava intorno stupefatta. L'improvviso cambiamento era misterioso. Eula Mae sapeva di non poter essere arrivata tanto lontano in così breve tempo: è vero, era stata soprappensiero, ma dubitava di aver camminato anche per un solo miglio. Secondo tutto quello che era logico, avrebbe dovuto essere ancora nel cuore della città. Tuttavia si guardò intorno, e i suoi occhi non le diedero che la prova che vi era un campo di cotone, un appezzamento di angurie dall'altra parte della strada e qualche baracca fatiscente un po' distante.

Si incamminò verso le baracche, e andò diretta verso una. Ma poi esitò prima di salire i gradini del portico in rovina. C'era un cane che ci dormiva, con il naso tra le zampe. Ma dormiva? Il cane non si mosse, non diede nessun segno di essersi accorto di lei che lo fissava. Era stato veramente un gas? Qualche gas misterioso, spruzzato sopra tutte quelle aree dove vivevano i neri? Ma se ciò fosse stato vero, perché lei aveva continuato a vivere?

Oltrepassò la baracca, continuando giù per la strada, sebbene a ogni passo la testa le dolesse e lei volesse stendersi da qualche parte, per riposare, per liberarsi dal dolore che le batteva nella testa, bucandole la fronte. Ma temeva che, se si fosse riposata, non si sarebbe mai rialzata.

Così camminò e camminò: poi arrivò in modo del tutto improvviso a un muro invisibile.

Indietreggiò, fissando stupidamente l'orizzonte, e la strada polverosa illuminata dalla luna che si allungava davanti a lei. Poi, esitando, allungò una mano, e la mano attraversò ogni cosa - il cielo, l'erba, la strada, le capanne distanti - e toccò un muro duro, piatto, liscio, invisibile.

Eula Mae iniziò a camminare lentamente lungo il muro, una mano distesa a toccarlo per assicurarsi della sua presenza. Camminò in quella direzione, seguendolo per un po'. Era qualcosa di soprannaturale, la sua mano che passava attraverso il paesaggio e toccava qualcosa di solido che non poteva vedere. Ma non aveva forze da sprecare per meravigliarsi. Il suo mal di testa quasi la sopraffaceva, e lei doveva fissare tutta la sua attenzione sul movimento, sul solo movimento. Ragioni e risposte sarebbero venute dopo, se sarebbero mai arrivate, così come il riposo sarebbe venuto dopo. Per ora avrebbe dovuto muoversi, perché aveva paura di fermarsi o di voltarsi indietro.

Una volta Eula Mae guardò alla sua destra, distogliendo lo sguardo dal muro, e si spaventò nel vedere che stava camminando lungo una strada a quattro isolati da dove viveva. Perché non aveva mai provato a camminare attraverso il muro, in direzione degli edifici che sembravano essere lì? O lo aveva fatto? Non riusciva a ricordarlo. Forse non era importante sapere se tutto il suo universo era stato sempre circoscritto da quel muro, o se questo era un cambiamento recente.

Improvvisamente il muro finì, e la sporgenza si fuse con la realtà in una costruzione solida. Era solo un altro agonizzante edificio popolare in rovina, come molti altri del vicinato. Era deturpato da cartelli con su scritto «Inagibile», e una porta si apriva minacciosamente sul buio.

Eula Mae esitò un momento: il dolore nella sua testa la tratteneva come un pugno brutale. Ansimò leggermente e si gettò attraverso l'entrata.

L'ingresso sul quale si apriva era piccolo e scuro, con una porta chiusa dalla parte opposta. Eula Mae armeggiò con la maniglia e la porta si aprì su una luce accecante.

Quando aprì gli occhi - lentamente, per il dolore del mal di testa e la luce abbagliante - Eula Mae vide che aveva aperto una porta che conduceva in un ampio corridoio dalle pareti bianche illuminato da pannelli fluorescenti sul soffitto. Ciò non apparteneva al suo mondo.

Eula Mae guardò su e giù per il corridoio. Mura bianche, interrotte da porte, che conducevano in varie direzioni. Non vide nessuno, non udì nessuno e, esitando, entrò nell'ingresso. Si voltò indietro alla sua porta e vide, in lettere tutte nere sopra all'intelaiatura della porta, le parole: «CITTÀ DEI NEGRI».

Il dolore della testa, che era diventato così continuo che poteva quasi ignorarlo, improvvisamente cessò e ricominciò con una nuova intensità. Eula Mae si morse le labbra per non gemere. Era assurdo andare avanti; era assurdo non andare a casa dove poteva stendersi... ma pensò di stendersi accanto al marito morto e capì che non poteva tornare indietro senza aver fatto nulla. Se era pazza, bene, allora era pazza. Sarebbe andata avanti.

Uscì dalla Città dei Negri. Arrivò a una porta denominata «Piccola Israele» ed esitò... e poi continuò a camminare. Eula Mae vide che il corridoio appena più avanti svoltava, e accelerò il passo.

Alla curva, il corridoio si apriva in una galleria larga e circolare. Era deserta. Tutt'intorno ai muri c'erano baracche o bancarelle, simili a quelle che si trovano alle fiere e ai parchi dei divertimenti, di tutte le misure... tipo quelle in cui vengono venduti i biglietti e distribuite le merci. E, come a una fiera (e ciò sembrò a Eula Mae essere del tutto fuori luogo in quel corridoio pulito, grande, vuoto, ben illuminato) ogni bancarella era decorata con vivaci cartelli e manifesti, ognuno che segnalava l'oggetto particolare da comprare alla bancarella.

«La Città dei Negri» - la parola vistosa in rosso e nero - colpì la sua attenzione, e lei si lasciò attrarre da quella bancarella.

Pagliacci con la faccia nera. Era un travestimento al quale Eula Mae era abituata. Labbra-carnose, occhi-sporgenti, teste con i capelli crespi. Mamme con bambini, neonati, giovani negri in tute da lavoro che strimpellavano il banjo.

«Guardate», diceva la didascalia sopra un disegno, «usanze che resistono dall'epoca tribale nell'Africa più nera!». Sopra a un disegno di negri, pieni di sentimento, che guardavano verso il cielo, c'era un consiglio: «Unisciti ai negri felici per i commoventi spirituals e canta il tuo blues.

In mezzo a disegni colorati c'era un riquadro con una scritta in grassetto. Eula Mae la lesse, con le labbra che si muovevano lentamente mentre cercava di afferrare ogni parola.

«Soddisfazione garantita! Osservate di prima mano un modo di vita scomparso. Guardateli tremare davanti a voi, gli odiosi "bianchi" oppure, per il brivido della vostra vita, che non dimenticherete mai, GUARDATE LA VITA ATTRAVERSO GLI OCCHI DI UN NEGRO! Sì! I nostri surrogati sono così veri, così realistici, che solo un esperto allenato può vedere la differenza. Inseritevi correttamente e, in un istante, vedrete, ascolterete, odorerete, gusterete e vi sentirete come se foste nel vostro stesso corpo. Camminate in mezzo a loro, senza essere riconosciuti, in un corpo androide negro: vi accetteranno come uno della "tribù", senza mai sospettare, mentre voi...».

Voci. Si inserirono tra la sua confusione e il dolore della testa. Eula Mae era paralizzata come un topo davanti ai fari. Da quale parte scappare? Persone... Stava cercando delle persone, ma che cosa se...

La cautela vinse. Si trascinò dietro la bancarella ricoperta di cartelloni, poi si accoccolò e attese.

Risuonare di passi: tacchi di stivali. Eula Mae fece capolino da dietro la bancarella, e il terrore la assalì quando vide chi erano.

Due uomini bianchi, belli, biondi, forti, di tipo ariano. L'orgoglio del mondo! Uno indossava una tuta e portava una cassetta degli attrezzi; l'altro era un qualche tipo di guardia, in uniforme grigia e nera, con delle svastiche che brillavano discretamente sulle sue spalle.

L'operaio si stava lamentando; la guardia lo ascoltava con un leggero sorriso che gli curvava le labbra.

«È solo che è così maledettamente inutile. È una spesa inutile mantenere gente vera: il pubblico non si accorgerebbe della differenza se noi li sostituissimo tutti con degli androidi. Alla fine verrà fatto, quando si estingueranno, quindi perché non rimpiazzarli tutti fin da ora? I replicanti non ci daranno questo tipo di problema».

«Probabilmente hai ragione», disse la guardia. «Il pubblico non se ne accorgerebbe: è molto ingenuo. Ma il Vecchio stesso qualche volta viene da queste parti... Lui se ne accorgerebbe... Gli piace...».

«Viene qui?»,chiese l'altro con timore.

La guardia si seccò per essere stato interrotto. Si era fermato per fare il suo discorso, e si attendeva che l'altro rispettasse come si conveniva le sue parole.

«Sì. Questo è uno degli ultimi posti dove si possono vedere queste cose... Molte altre gallerie sono composte interamente da replicanti. Alcuni sono molto belli, è vero, ma non sono autentici. E per alcuni, come il Vecchio, avere la cosa vera è molto importante. Lo rende molto orgoglioso, poter venire qui a vedere un modo di vita che ha cancellato dalla terra...». La guardia riprese a camminare e anche l'altro accanto a lui.

Quando girarono l'angolo e uscirono dalla visuale, Eula Mae poté ancora sentire il bel tono risonante della guardia che continuava:

«Ma, naturalmente, anche il Vecchio non durerà per sempre... Quando finalmente se ne andrà, potrai fare tutte le tue sostituzioni, e avrai da mantenere solo i tuoi replicanti».

La voce e i passi si affievolirono. Eula Mae si alzò, lentamente e con dolore. La testa le faceva troppo male per pensare, quasi troppo per muoversi. Poteva solo augurarsi di non essersi mai svegliata, di non aver mai notato che c'era qualcosa di strano nella luna... Le ci vollero dei minuti per riacquistare la forza e la volontà per avanzare di alcuni passi, ed era così assorta in questa semplice azione, che non udì il ritorno dei passi finché non fu troppo tardi.

Udì una voce dire con calma:

«Ah, eccola!».

E poi il dolore nella testa divampò, perse conoscenza e si afflosciò a terra al centro della grande galleria.

 

DAVID DRAKE

La terra di Nemesi

 

I lettori dei precedenti volumi di The Year's Best Horror ricorderanno alcune storie di David Drake come Something Had to Be Done, Best of Luck, e Children of the Forest. Drake è un Sostituto Procuratore di Chapel Hill, nel North Carolina, vicedirettore dell'importante periodico Horror «Whispers», e coeditore (con Karl Wagner) della casa editrice specializzata Carcosa, che ci ha regalato recenti e importanti raccolte di storie dell'orrore di Manly Wade Wellman, E. Hoffman Price e Hugh B. Cave. Inoltre, Drake è conosciuto come scrittore di Science Fiction, specialmente per le sue storie di Hammers Slammers. Ma, se esiste un campo della narrativa fantastica del quale si possa dire che Drake è il professionista indiscusso, è certamente la Historical Fantasy. Karl Wagner ha detto di lui che è un romanofilo che non crede che l'Impero Romano sia caduto. Drake ha esplicitato molte volte questa idea, aiutando Wagner nella ricerca storica per il suo romanzo Bran Mak Morn, Legion of the Shadow; scrivendo storie storiche come Children of the Forest, e con le sue storie di Vettius e Dama, che sono apparse in varie antologie e riviste da quando Drake ha iniziato a vendere la sua fiction. Una di esse era su «Fantastic» lo scorso anno, e noi l'abbiamo presa per inserirla qui. Sarà certamente un piacere per voi, ma fate attenzione alla fine: se non state attenti, vi potrebbe sfuggire.

 

Vettius e il suo mezzo drappello di soldati in armatura riempirono lo stretto ufficio del locandiere. «Il mercante Dauod di Pedra», disse, puntando il dito come una lama di coltello alla gola dell'impaurito civile. «Quale stanza?».

«S... secondo piano», balbettò l'oste, e la sua faccia diventò color del sego, quando i soldati dell'Imperatore irruppero e si scagliarono su di lui. «La più vicina alla scala».

«Ulcius, controllalo!», ordinò il grande ambasciatore facendo un cenno della testa al più vicino dei suoi uomini. Gli altri soldati e Dama stavano già sciamando verso la scala che serviva come unico mezzo per accedere ai piani superiori della taverna. Dama era metà della corporatura di uno qualunque dei suoi robusti soldati, simile a un elfo della razza dei Cappadoci, i cui capelli biondi erano ora, in parte, bianchi. Apparentemente non era armato, ma Vettius non aveva portato il suo amico in quell'incursione per combattere.

Il grasso carrettiere che aveva cominciato a scendere i gradini, ebbe sufficiente buon senso per cambiare direzione quando i soldati arrivarono correndo su per la scala. Il rumore dei loro sandali chiodati che raschiavano le mattonelle era l'unico rumore che fecero nel formare un semicerchio intorno alla porta indicata. Dulcitius, il centurione tracio con la faccia da dio e occhi da donnola, sfoderò la sua spada silenziosamente. Vettius controllò la posizione dei suoi uomini, si spostò in modo che il suo stesso corpo coperto di corazza nascondesse Dama, e sferrò un calcio alla porta di legno chiusa con il chiavistello. Tutti e cinque entrarono prima che l'occupante dai capelli grigi potesse sedersi sul suo materasso.

«Il tuo nome e la tua attività, subito!»,disse Vettius tuonando in aramaico. Non aveva sfoderato la sua lunga spada, ma ciascuno dei suoi pugni chiusi era in grado di spappolare il fragile uomo sul letto.

«Signori, io sono Dauod, figlio di Hafiz, nient'altro che un commerciante di spezie», disse piagnucolando il vecchio. Le sue mani tremavano mentre indicavano i contenitori di spezie della grandezza di una testa sotto la finestra sbarrata.

«Ti è stata detta la verità», disse Dama con assoluta certezza. Aveva commerciato in più paesi di quelli che molti, nell'Impero, pensavano esistessero, e i dialetti locali facevano parte dei suoi ricordi, tanto quanto i prodotti barattati. «Questo non è un accento arabo», proseguì, «è puro persiano. Potrà essere un commerciante di spezie, ma non viene da Petra né da nessuna altra parte all'interno dell'Impero».

La faccia quadrata dell'ambasciatore si illuminò di trionfo. «Sorprendente!», disse, con quell'ironia che rendeva pungenti le sue parole. «Non credevo che ci fosse qualcuno ad Antiochia che non fosse troppo occupato nel prestare orecchio al tradimento per preoccuparsi di dirci qualcosa su una spia persiana».

Il vecchio indietreggiò contro il muro deformando il sacco che serviva da cuscino alla testata del letto. L'occhio allenato di Vettius notò una forma dura nel tessuto. Le sue mani schizzarono in avanti, spingendo via il sacco e facendo cadere il pugnale al suo interno. Per un po' nessuno si mosse. Il persiano si curvò come se cercasse di strisciare all'indietro nel muro.

Dama toccò il coltello con il piede, ascoltandone criticamente il risuonare. «Argento», annunciò. «Non penso che sia un'arma. È un arnese magico, come il mantello nel quale era avvolto».

«Eh?». Vettius diede un'occhiata alla rozza coperta di lana che aveva afferrato, e vide che, quando la si spiegava, si rivelava un indumento di seta nera, leggera e fine come la tela di un ragno. Sull'orlo, tessuti con filo metallico, c'erano dei disegni che sembravano delle scritture ma in caratteri non familiari all'ambasciatore. Vettius diede un calcio al pugnale d'argento mandandolo nell'entrata, e vi gettò dietro il mantello.

Intenzionalmente voltò le spalle all'uomo che si era dato il nome di Dauod. Chinandosi, afferrò una maniglia ed estrasse uno dei piani inferiori dei contenitori di spezie. Come gli altri, era di pelle, e il suo coperchio chiuso era assicurato con delle cinghie; ma la lavorazione era estremamente buona, e una recente lucidatura non nascondeva i segni del tempo. Vettius armeggiò con il nodo, poi fece saltare il laccio con una veloce flessione delle dita.

Il vecchio persiano emise un grido senza parole e saltò in direzione delle spalle dell'ambasciatore. La spada di Dulcitius sfrecciò come un fulmine, penetrando nella mascella del persiano e uscendo dalla tempia opposta tra schizzi di sangue. Vettius si girò con un urlo e colpì il suo centurione con un movimento brusco. «Idiota, chi ti ha detto di ucciderlo? Stava per colpirmi?», gridò.

Dulcitius risuonò quando rimbalzò sul muro, con la faccia bianca come la sua tunica, eccetto sulla guancia dove era stampata la larga impronta della mano di Vettius. La sua spada era ancora conficcata nel cranio dell'uomo morente che si dimenava sul pavimento, ma una furia assassina velava i suoi occhi. Non osservato, Dama tirò fuori il piccolo coltello che teneva nascosto nella tunica.

«Non c'era bisogno di farlo», disse Dulcitius lentamente.

«Non c'era nessun maledetto motivo di ucciderlo prima ancora di iniziare a interrogarlo!», rispose bruscamente Vettius. «Se sei troppo stupido per accorgertene, il grado di ufficiale non fa per te... E mi occuperò presto di questo errore, dannazione! Comunque, scendi di sotto con Ulcius. Fatti dire dall'oste chi aveva visto questo Dauod, cosa faceva... Ogni dannata cosa riguardo a lui, da quando è arrivato ad Antiochia».

Vettius era, per nascita, un celtiberico, uno di quella razza dai capelli neri e dal cuore nero che aveva chiuso una maledetta porta ai Teutoni e li aveva mandati contro le lance di Roma e contro Mario. Quattro secoli e mezzo non avevano tolto all'alto ambasciatore né il coraggio dei suoi avi né la loro crudeltà; Dulcitius lo fissò, poi si voltò e lasciò la stanza senza imprecare né guardarsi indietro.

«Cominciate a guardare tra il suo bagaglio», disse Vettius con calma ai soldati rimasti. «Lui non ci dirà molto di sé».

Il contenitore nelle sue mani si rivelò un imbroglio non appena lo aprì, mostrando un rotolo di pergamena e una bottiglia di vetro, rotonda e sistemata in una cavità di pelle che la teneva ferma. Vettius soppesò la sfera nella sua mano. Il mercurio argentato che la riempiva aveva appena aria a sufficienza, intrappolata sotto il sigillo, da tremolare.

Dama stava già dando un'occhiata alla pergamena. «È in greco», disse accigliandosi, «per la maggior parte. Narra delle ricerche di Nemesius...».

«Il suo vero nome era Nemesius?», lo interruppe l'ambasciatore.

«...di Nemesius di Antiochia», continuò Dama imperturbabile «nel terzo anno del regno dell'Imperatore Valeriano».

I soldati avevano smesso di aprire le casse piene di spezie. Lo stesso Vettius aveva lo sguardo incerto di uno che non sa chi gli sta giocando uno scherzo. «Valeriano», ripeté. «Ma è stato ucciso...».

«Circa un secolo fa», terminò il cappadoce, trovandosi d'accordo. «Che cosa ci faceva un mago persiano con una pergamena scritta un secolo fa da un filosofo greco?».

La lingua di Vettius spinse il lato sinistro della guancia. Poteva comandare le truppe o sedurre le donne in otto lingue, e cinque le parlava fluentemente, ma solo in latino poteva pretendere di leggere. «Sarò piuttosto impegnato nei prossimi giorni», mentì senza necessità. «Perché non lo leggi tu e mi dici cosa ne pensi?»

«Sestia sarà probabilmente contenta che io abbia trovato qualcosa da fare per alcuni giorni, invece di importunarla», disse Dama con un sorriso affettuoso. «Sicuro, non mi farà male darci un'occhiata».

 

La luna e le lampade a olio a tre stoppini illuminavano il cortile con le colonne. I servitori avevano tolto gli ultimi piatti, lasciando i due amici al vino di Chian e alla calda notte siriana.

«Mi dispiace che a Sestia sia venuto il mal di testa all'ultimo momento», disse Dama. «Mi piacerebbe che voi due vi conosceste meglio».

«Le è venuto il mal di testa quando ha sentito che venivo per la cena», osservò Vettius, più interessato a mettersi a posto la tunica che a quello che l'altro stava dicendo.

«Di solito non hai questi problemi con le donne», farfugliò il mercante.

«Sa che tipo di uomo sono: è tutto qua».

«Chi ti conosce a fondo, Lucius, non penserebbe che tu sedurresti la moglie di un amico».

«Sì, è questo quello che intendevo».

Dama tracciò un disegno senza senso con i fondi del vino sul ripiano del tavolo di marmo. L'ambasciatore alzò lo sguardo, rosso in viso, e trangugiò il contenuto della sua coppa. «Mitra!», si scusò. «Ho già bevuto troppo». Poi: «Guarda, hai cavato fuori qualcosa dal rotolo? Né l'oste né l'altro che abbiamo trovato nella stanza ci hanno fornito notizie sulle intenzioni di Dauod».

Il cappadoce poggiò la scatola di pelle sul tavolo e ne tirò fuori la pergamena.

«Umm, sì, io lo so... ma c'è dell'altro, e potresti darmi del pazzo quando te lo dirò».

«Non sei pazzo», disse con calma Vettius. «Dimmi del rotolo».

«Nemesius di Antiochia stava cercando il segreto della vita, e il modo di trasformare i metalli vili in oro. Ha scritto qui un resoconto dei suoi tentativi...», Dama aprì un po' il rotolo per dare peso alle sue parole, «dopo essere riuscito in entrambe le cose. O così dice».

«Anche se ne avrei sentito parlare da tempo, se questo fosse vero», disse il soldato sbuffando.

«Tranne il fatto che», fece notare Dama, «quello fu l'anno in cui i Persiani saccheggiarono Antiochia. E la villa di Nemesius era fuori dalle mura». Srotolò la pergamena fino a un passo che aveva notato. «"...lasciando al posto del piombo una colonna di oro vivo, uguale a me in altezza e del diametro di circa tre cubiti". Ora ciò che sospetto è che il tuo Dauod non fosse una spia. Era un mago egli stesso, non dell'abilità di Nemesius, ma in grado di capire i processi che lui descrive e di credere che potessero funzionare. Era anche uno studioso, uno abbastanza bravo da leggere questo rotolo in una cassa rubata per capriccio un secolo fa; e, inoltre, un giocatore d'azzardo, pronto a rischiare la vita per esso, in un Impero ostile».

«Ma per cosa?», domandò Vettius. «Hai detto che il luogo fu saccheggiato».

«Nemesius aveva un laboratorio sotterraneo. Ne descrive l'entrata segreta in questa pergamena», rispose Dama. «Può essere che il persiano che trovò la cassa - e Nemesius, probabilmente - al pianoterra mancò di scoprire il passaggio sottostante. Se è così, l'oro potrebbe essere ancora lì».

Il respiro di Vettius era come quello di un ragazzo che vede per la prima volta una bella donna nuda. «Tutto quell'oro!», bisbigliò. Si mise seduto sul divano e si chinò in avanti verso il suo amico, con la mente che lavorava come un pallottoliere.

«Centinaia di talenti, forse migliaia... Se riuscissimo a trovarlo, saremmo entrambi ricchi come i liberti dell'imperatore. Cosa faresti con una ricchezza come quella, Dama?»

«La lascerei marcire nella terra», disse il mercante senza inflessione.

Vettius batté gli occhi a quelle parole e al duro sguardo blu del cappadoce. «Ti ho letto cosa creò Nemesius», proseguì Dama, «ma non ti ho letto come lo realizzò. Né per la vita eterna né per tutto l'oro del mondo avrei fatto metà delle cose che lui dichiara di aver fatto. C'è una maledizione su questo oro. È pericoloso. Il pericolo trasuda da questa pergamena, anche se Nemesius non scrive una parola sul perché. Forse ne aveva paura. Lasciamo il tesoro a qualcuno che va cercando problemi più di noi».

Vettius prese l'ampolla del mercurio dalla cassa per tenere occupate le mani mentre rifletteva. La bolla danzava attraverso la trasparenza, una sfaccettatura mobile alla luce delle lampade a olio. Il tappo era di oro sottile e cesellato, ma il corto collo della bottiglia era stato sigillato con la cera prima che l'oro venisse applicato.

«Perché due sigilli? Cosa ne pensi?», chiese Vettius invece di dare voce a ciò che aveva in mente.

«Il mercurio si unisce all'oro: lo deteriora rendendolo una pasta», spiegò Dama. «È la cera il vero sigillo, il metallo sopra è solo per bella mostra». Si fermò, poi continuò quando vide che il soldato non era ancora pronto a parlare. «Nemesius usò il mercurio nella sua ricerca, sia per la vita che per l'oro. Dice che portava sempre questa bottiglia con sé; il perché, non lo so. Il manoscritto non lo spiega».

«Hai trascorso la tua vita raccogliendo e commerciando oro, non è vero?», borbottò il grosso spagnolo, rimettendo il mercurio nella cassa e poi guardando la sua coppa di vino.

«Sì, l'ho fatto», acconsentì Dama, con un atteggiamento consapevole che allentava la tensione che aveva assunto la notte. «Spezie da Taprobane, sete dall'India. Una volta andai fino nelle terre di Serian per la seta, ma il guadagno extra non valse il pericolo corso».

«Tutta la tua vita passata a cercare oro, e mi dici di non dissotterrare il riscatto di un imperatore quando è proprio lì in attesa. Non ti capisco, Dama». Vettius alzò contemporaneamente la voce e gli occhi. «Stai giocando un qualche gioco, e io non so di cosa si tratta!».

«Nessun gioco», disse Dama, sempre con calma. Fronteggiò il suo amico come, una volta, aveva affrontato un orso ferito. Il mercante aveva visto altri uomini infatuarsi improvvisamente di un'idea: un cavaliere spinto al fanatismo dalla maestà del suo dio ariano, un capitano di nave così sicuro che un quarto continente esistesse a ovest dell'Irlanda da convincere un'intera ciurma a scomparire con lui alla sua ricerca. Uno scherzo, una parola sbagliata, spingerebbero un tale uomo a un delirio omicida. «Certo amo l'oro, ma lo conosco. Non sto affatto scherzando, Lucius, quando dico che c'è qualcosa che non va in questo tesoro. Ti aiuterò in ogni modo possibile affinché tu lo trovi, ma non voglio nulla di ciò che Nemesius lasciò».

Lentamente Vettius prese la brocca del vino e un sorriso dispiaciuto comparve sul suo viso. «È onesto», disse, mentre versava il vino per entrambi. «Un po' troppo onesto, ma ce ne preoccuperemo quando l'oro sarà nelle nostre mani, eh?». Si fermò; poi, troppo impaziente per fare finta di essere calmo, sbottò: «Pensi ci sia una qualche possibilità di localizzare i sotterranei di Nemesius dopo tutto questo tempo?».

Dama annuì.

«Fammici pensare. C'è un modo per fare la maggior parte delle cose se ci si pensa sopra un momento».

Il soldato bevve qualche sorso, poi trangugiò il suo vino fino in fondo e si alzò. La luce illuminava di riflessi bronzei la sua pelle e rendeva ogni pelo della sua barba una punta di spillo. «Me ne vado, allora», disse. «Io... io apprezzo veramente tutto ciò che hai fatto o che farai, Dama. Non è per me, veramente; ma se avessi ricchezze a sufficienza per far ascoltare da quegli idioti di Costantinopoli quello che ho da dire sull'esercito...».

Dama gli batté una mano sul braccio. «Come hai detto, ne parleremo quando l'oro sarà nelle tue mani».

Dopo che il suo amico se ne fu andato al seguito del suo portatore di lampada, ubriaco ma dritto e con un sorriso malvagio sul viso, tale che nessun brigante avrebbe osato creare guai, Dama ritornò nel cortile. La stanza di Sestia sarebbe stata chiusa a chiave. Dall'esperienza passata Dama sapeva di dover stare lontano dalla sua ala della casa per non rendersi ridicolo davanti ai suoi servitori, cercando di persuadere sua moglie, attraverso la porta sprangata, ad abbandonare i risentimenti. Invece, tastò l'ampolla di mercurio, poi riaprì il rotolo di pergamena accanto a essa.

Quando l'alba cominciò a far cambiare colore al rivestimento di marmo del cortile, lui stava ancora al tavolo a dettare appunti a un assonnato erudito che aveva buttato giù dal letto tre ore prima.

 

«Sei sicuro che sia questo il posto?», disse Vettius, una figura anonima nel crepuscolo a meno che uno non notasse la punta del fodero che sollevava l'orlo del suo lungo mantello da viaggio. Il recinto di fango e mattoni intorno a loro risuonava del rumore di una vita furtiva, in parte umana, ma nessuno avvicinava l'amico.

«Non sono sicuro che il sole sorgerà stamattina», rispose Dama, «ma è abbastanza evidente che la villa di Nemesius fosse qui. Scomparve con il primo saccheggio, probabilmente bruciato con gli altri edifici. I suoi eredi vendettero la zona a qualcuno che ci voleva costruire degli alloggi a poco prezzo: a quel tempo la terra fuori le mura non era considerata un buon posto per case eleganti. Ciò mostrava buon senso perché, quando i Persiani tornarono tre anni dopo, bruciarono anche gli alloggi».

Alla luce del giorno se ne vedevano le tracce: vecchi segni di bruciature su macerie ancora ammucchiate tra le erbacce rigogliose. «Strano che nessuno abbia più costruito da allora», disse Vettius, stringendo gli occhi per mettere a fuoco l'immagine male illuminata dell'arido terreno davanti a lui.

«Il luogo aveva acquistato una cattiva reputazione». Dama allentò, scrollandolo, il mantello logoro, spostando la presa sulla cassetta di pelle che portava. «Ecco come è stato possibile trovarlo». Gesticolò. «C'è molta gente in città - la feccia che vive qui, e anche quelli che stanno un po' meglio, che si uniscono a loro - che sa cosa vuoi quando chiedi della proprietà di Nemesius, che si trovava da qualche parte oltre la strada di Sidon. "Oh, sì", dicono 'La terra di Nemesi'. Poi le loro facce si irrigidiscono e aggiungono: "Comunque, che cosa vuoi? Nessuno va da quelle parti"».

Il piccolo mercante girò lo sguardo ancora una volta nell'oscurità. «Non è del tutto vero, naturalmente. Qui la gente abbatte gli alberelli per accendere il fuoco. Probabilmente alcuni dormono, di tanto in tanto, nelle rovine. Però non ci rimangono a lungo. Niente in particolare: solo disagio. "La terra di Nemesi"».

«Balle!», disse Vettius, cominciando a entrare nella radura. «Non mi sento a disagio».

«Non sembravi tanto a tuo agio, quando siamo usciti dal cancello questo pomeriggio», commentò Dama mentre trottava al suo fianco, con la cassetta che gli batteva sulla coscia. «Pensieri segreti, oppure è solo che non ti piace passare furtivamente accanto ai tuoi uomini senza poterli sgridare perché non hanno lucidato il loro bronzo?».

Vettius rallentò e lanciò un'occhiata al suo amico. Con la sorpresa che si percepiva nella sua voce, disse: «Mi conosci troppo bene. Non mi piace che possano pensare di ignorarmi solo perché ho detto loro che andremo via per tre giorni a caccia sulle colline. Oggi Dulcitius doveva comandare la guardia alla porta ma, poiché pensano che sono già andato via, sembra che abbia mercanteggiato il turno con Furianus senza avermelo detto».

Dama incespicò, più per la collera che per il pezzetto di pietra nella boscaglia. «Dulcitius», ripeté. «L'ho visto che ciondolava intorno alla mia entrata. Digli da parte mia che lo ucciderò se lo ritrovo ancora lì».

«Non scherzare con lui», obiettò Vettius con gentilezza.

«Non ho paura», scattò Dama.

«Dama, tu conosci tante cose che io non so», insisté il soldato, «ma ascolta la mia opinione riguardo agli assassini. Non pensare mai di metterti da solo contro Dulcitius».

«Qui è abbastanza lontano», disse Dama, cambiando discorso quando una pila di materiale da costruzione apparve davanti a loro. Si inginocchiò accanto a essa per accendere una grossa candela di sego con la miccia a combustione che aveva portato in un vaso di terracotta. «Quando costruirono gli appartamenti, seguirono la pianta del terreno della villa», spiegò. «Usarono le vecchie fondamenta. Ieri ho controllato, e la lastra di pietra sopra la scala nascosta è ancora là».

«L'hai aperta?».

Dama ignorò il sospetto che si intuiva nel tono del suo amico. «Non potevo senza te o senza una squadra di muli. Alla fine, ho deciso che userò te».

L'aria era così ferma che la fiamma della candela pulsava dritta verso il cielo senza luna. Alla sua luce Vettius vide, in quello che era stato il pavimento del cortile, una lastra coperta di mosaici sotto la quale secondo Nemesius stavano le scale. Il disegno su una lastra di bronzo che fungeva da contrappeso era composto da due dragoni intrecciati, uno nero e l'altro bianco. Era impossibile dire se gli animali stessero combattendo, accoppiandosi, o se si stessero guardando. Le loro code erano nascoste dietro un blocco di calcestruzzo che si era messo di traverso al mosaico quando la costruzione era crollata.

«Ho portato una mazza», disse Dama, estraendo l'arnese dalla doppia tracolla sotto al braccio destro, «ma lascerò che sia tu a fare il lavoro».

«Umm», borbottò Vettius considerando il masso che ostruiva il passaggio. Doveva aver fatto parte di un muro portante, spesso una mano e sezionato per un'ampiezza di circa tre piedi. L'estremità spariva sotto una pila di altri calcinacci. Vettius gettò da parte il mantello e si accovacciò sopra la lastra, con le mani rivolte verso l'alto per afferrare il suo bordo irregolare.

Dama aggrottò la fronte. «No, ti servirà la mazza», disse.

«Molto probabilmente», convenne Vettius, «ma ciò significa troppo baccano: cosa che io vorrei evitare se è possibile». Si irrigidì, e il viso gli diventò rosso mentre i tendini gli uscivano dal collo. La lastra tremò. La sua tunica di lino si strappò fino alla cintola. Poi le sue cosce si raddrizzarono e la lastra girò sull'estremità interrata, scivolando all'indietro di un piede prima che lo sbilanciato soldato si sedesse sopra di essa.

«Dopo... cosa? Ventisei anni? Tu hai ancora la capacità di sorprendermi, Lucius», disse Dama. Si inginocchiò e girò una delle mattonelle sul bordo finché il metallo non scattò. A un'ulteriore pressione con un dito su un'estremità, il mosaico si sollevò.

Vettius si alzò, scrollò le spalle, e raddrizzò la sua spada. «Andiamo», disse, prendendo la candela.

«Un momento». Dama piegò il suo mantello, pieno di protuberanze che tradivano altri preparativi contro impreviste necessità. Dalla fusciacca tolse ogni cosa eccetto una candela di scorta e la sua spada, più corta di un piede rispetto a quella di Vettius, ma pesante e ben affilata da entrambi i lati. Tirandola fuori prima di sollevare la cassetta con la mano sinistra disse: «Bene, sono pronto».

«Sei così preoccupato?», chiese Vettius con un sorriso. «E se lo sei, perché ti stai trascinando dietro quella cassetta?»

«Perché sono preoccupato. Nemesius dice che la portava, e lui ne sapeva molto più di noi su quello che lo aspettava».

La rampa di scalini di mattoni, ripida e stretta, scendeva per venti piedi fino a un pavimento di roccia viva. La candela bruciava vivacemente sebbene l'aria avesse un odore metallico, un odore accennato ma persistente. La galleria nella quale il pozzo delle scale si apriva era composta da una serie di volte con pilastri i cui apici raggiungevano quasi la superficie. La candela ne rivelava la grandezza che non riusciva a illuminare.

«Mitra!», esclamò Vettius, alzando la luce per l'intera lunghezza del suo braccio. «Come si può avere una stanza segreta quando è così grande che mezza Antiochia sarebbe dovuta venire qui sotto a zappare per scavarla?»

«Sì, mi sono anche chiesto come è stata scavata», disse Dama. Non approfondì la questione.

Le mura erano rivestite con marmo colorato. Una stretta mensola all'altezza delle spalle divideva le lastre, levigate in basso ma con su scolpiti, dalla sporgenza al soffitto, ogni tipo di simboli e animali fantastici. La tecnica di esecuzione era buona, ma l'esecuzione dei disegni mostrava una rozzezza simile a quella delle insegne per le battaglie.

«Non sembra aver avuto necessità di tutto questo spazio», osservò il soldato quando entrarono nella terza volta: conteneva una dozzina di lunghi scaffali pieni di arnesi e bottiglie tappate, ma anche quello non era che un uso parziale del suo intero volume.

Girarono intorno agli scaffali. Neanche l'ultima delle quattro volte era vuota. «Oh, Gesù», mormorò Dama mentre il suo più grosso compagno mormorava: «Mitra! Mitra! Mitra!», sottovoce. Una bassa pedana di pietra stava al centro della camera. Nemesius doveva essere stato un uomo alto. La colonna d'oro alla quale si riferiva come alta quanto lui, avrebbe sovrastato anche Vettius se messo vicino a essa. Doveva essere stato misurato anche con il cubito lungo, poiché il diametro della massa era certamente superiore ai cinque piedi. La sua superficie era irregolare, simile a quella di onde gelate che mutano direzione con la corrente della marea, con striature rosse nella massa del metallo più giallo.

«Oh, sì...», disse Vettius, estraendo la sua spada e muovendosi verso l'oro.

«Attenzione, Lucius», lo avvertì Dama. «Non penso che sia un bene prenderne un pezzetto. Nemesius dà la formula per "liberare" la colonna. Penso che la dovrei leggere prima».

Vettius fece un gesto di irritazione ma disse solo: «Ancora non abbiamo trovato nessun trabocchetto, però non vuol dire che non ce ne abbia messo qualcuno». Teneva la candela vicino, mentre Dama apriva la cassetta e srotolava la pergamena fin dove era necessario.

Il mercante aveva sfoderato la sua spada. Inginocchiandosi e tirando un respiro profondo, lesse ad alta voce in greco:

«Nei nomi attraverso i quali tu fosti legata, Saloe, Pharippa, Phalertos, io ti slego!».

Mentre la sua voce acquistava forza rispetto al rauco sussurro con il quale aveva cominciato, Dama lesse la riga seguente in persiano, usando l'antica pronuncia: «Per i metalli nei quali fosti rinchiusa nella morte, piombo, zolfo, mercurio, ti lascio libera di vivere!».

C'erano altre cinque frasi nell'incantesimo, ognuna in una lingua differente; Vettius non ne capì neanche una. Una gli ricordò delle frasi mormorate da un cavaliere che aveva cavalcato con uno squadrone di truppe irregolari Sakai, ma che veniva dal lontano est. Al culmine, la voce di Dama fu come un tuono inumano, spiegabile solo come un semplice gioco acustico dello spazio.

«Acca!», urlò. «Acca! Acca!».

Le parole colpirono l'oro come colpi di mazza e ricaddero lontano da loro. La colonna si piegò, cadde, e iniziò a fluire sulla pedana prima di risolidificarsi. Un'unica striscia lucente partì zigzagando dal corpo principale, come un ruscello che scorre attraverso terre fangose. «Cos'hai fatto, in nome di Dis?», urlò Vettius. La candela nella sua mano tremava mentre lui la teneva in alto.

Il metallo sembrava duro. Aveva formato una cupola irregolare occupando la maggior parte della pedana e un po' della roccia sottostante.

«Come se lo avessimo riscaldato», disse Dama.

«Ma...». Allungò il braccio, accese l'altra candela con la fiamma della prima e la mise sul pavimento vicino alla cassetta di pelle. Poi si avvicinò alla pedana mentre Vettius aspettava, lacerato dalla rabbia e dall'indecisione.

Due rivoletti scorrevano verso il cappadoce che avanzava. Lui si fermò. Vettius si liberò della spada che teneva in mano e disse:

«Dama, io...».

Dama balzò all'indietro mentre i rivoletti d'oro si congelavano, tagliando poi attraverso l'aria. Sottili come capelli e rigidi come lame di spada, lacerarono l'orlo svolazzante della sua tunica ma mancarono la carne. La cupola stessa si mosse verso gli uomini, avanzando dalla pedana con l'ingannevole velocità di un millepiedi che striscia su una tavola posta sul suo percorso.

Dama prese il manico della cassetta di pelle, l'afferrò, perse l'equilibrio, e la scaraventò a una dozzina di piedi di distanza sulla pietra. Vettius si era voltato e correva verso l'entrata della camera. La sua candela si spense non appena accelerò l'andatura, ma quella ancora accesa sul pavimento rivelò un bagliore davanti a lui. «Lucius!», urlò Dama, ma il grande soldato aveva visto lo stesso tremolio e la sua spada si abbatté in alto e in avanti per bloccare la vena d'oro espulsa quando la colonna era crollata. L'acciaio incontrò l'oro, e il metallo più leggero sibilò mentre si separava. La cima tagliata rotolò sul pavimento e formò una pozza, mentre il resto del sottile tentacolo ondeggiava, bloccando ancora l'unica entrata. Strisce rossastre si propagarono attraverso la massa principale mentre questa si avvicinava alle sue vittime.

Vettius menò ancora dei tremendi fendenti verso l'oro davanti a lui, ma questo si era ispessito dopo la sua iniziale lesione, formando una barra che con l'impatto si scalfiva soltanto. Con la velocità di un pitone, si avvolse intorno alla lama e la strappò dalle mani dello spagnolo. Dama aveva fatto due passi ed era saltato, usando la mano sinistra per aiutarsi a portare il suo corpo snello sulla mensola all'altezza delle spalle. Vettius vide il balzo, e si voltò come una tigre per fare lo stesso. La cassetta di Nemesius era aperta sul pavimento. Dama guardò, capì e gridò: «Il mercurio! Rompilo su...».

Vettius si chinò e afferrò la luccicante ampolla di liquido. La tenne alta quando la massa fluida fece fuoruscire un lenzuolo che gli avvolse le caviglie. In grado di agire, ma senza volerlo, egli gemette, «Oh, Dei, l'oro!», e il lenzuolo si gonfiò in una coperta mentre l'intero peso del metallo cominciava a fluire sopra di lui.

Dama si chinò in avanti, giudicando la distanza con la stessa fredda precisione con la quale avrebbe pesato una balla di seta nel suo magazzino. Il veloce arco descritto dalla sua spada lo sbilanciò come lui sapeva che sarebbe accaduto. Stava cadendo sul mostro rigonfio sotto di lui, nell'istante in cui la sua punta frantumò la palla di vetro nelle mani del suo amico. Gocce di mercurio si sparsero attraverso la massa d'oro e si fusero con esso.

La camera esplose in un lampo rosso. In un attimo le mura arsero con gli occhi fissi, privi di ombra degli animali dipinti sul fregio. Lentamente, abbagliati ma non accecati, i due uomini si liberarono di quella robaccia granulosa, mentre le loro retine si riadattavano alla luce dell'unica candela. Nel punto in cui era stata esposta al lampo, la loro pelle dava la sensazione di essere raggrinzita, e pizzicava come per una scottatura solare.

«Hai corso un bel rischio là!», disse realisticamente Vettius. La maggior parte dell'oro sembrava essersi disintegrato in una polvere di metallo grigiastra: piombo, a giudicare dal suo peso. Dove il mercurio era effettivamente caduto, resistevano delle pozze con una malvagia lucentezza argentea. «Quando ero immobilizzato, tu avresti potuto fuggire lungo la mensola».

«Ho abbastanza pesi sulla mia coscienza, senza dovervi aggiungere il fatto di lasciare un amico in quelle condizioni», disse Dama.

«Sapevo cosa doveva essere fatto, solo che non potevo... distruggerlo», spiegò il soldato. Stava in ginocchio, conficcando le mani nella polvere di piombo. «Questo oro... e, dannazione se ne so il perché ora, ma quest'oro, per me, aveva più valore della mia vita. Credo che questo accada perché si ha bisogno degli amici, che facciano per te quello che tu non vuoi fare per te stesso».

Dama aveva recuperato la candela e la teneva alta. «Un'altra volta ne parleremo con un filosofo. Ora usciamo fuori di qui prima di trovare qualche altra chicca lasciata dal nostro amico Nemesius».

«Dammi un momento. Voglio ritrovare la mia spada».

Il mercante sbuffò.

«Se ti curassi così tanto di qualche donna - di una donna - come hai cura della tua spada, Lucius, saresti un uomo più felice. Lo sai? Proprio adesso mi sento come se fossi stato via per tre giorni, come avevo detto a Sestia che avrei fatto».

«Trovata!», disse Vettius, asciugando attentamente l'elsa e la lama della spada sulla sua tunica prima di rinfoderare l'arma. «Torniamo a salutare tua moglie».

 

Più tardi, quella notte, Dama capì tante cose. Tramortito quanto un impiccato, mormorò «Sestia!» attraverso la porta che aveva distrutto, verso la camera di sua moglie. La spada e il pugnale del centurione erano sul tavolo vicino al letto e Dulcitius fu molto veloce, ma Vettius aveva sguainato la spada per primo. Nulla avrebbe potuto fermare il fendente della sua spada: sicuramente non le lenzuola del letto, né i due corpi avvinghiati sopra di esse.

 

MICHAEL BISHOP

Collaborazione

 

Da quando iniziò la sua carriera di scrittore di Science Fiction nel lontano 1970 con If a Flower Could Eclipse, e Pinon Fall, Michael Bishop ha scritto alcune delle più commoventi storie che questo settore abbia visto finora: Death and Designation Among the Asadi, The Samurai and the Willow, Old Folks at Home, The House of Compassionate Shares, Stolen Faces, A Little Knowledge, e Within the Walls of Tyre. Questa lista potrebbe essere un catalogo delle sue storie. La caratteristica che lo ha distinto dalla tipologia generale degli scrittori di Science Fiction e di Fantasy, è stata una profonda umanità che lo ha reso capace di produrre tranquille storie personali che mantengono una buona posizione quando sono poste tra racconti di grandeur e azione che sembrano sempre destinati a essere la regola sia per la Science Fiction che per la Fantasy, per non parlare dell'Horror. Collaborazione è lo studio del carattere di una persona - o persone - che altri potrebbero, nella loro ignoranza, chiamare mostro; e, come tale, è un tour de force. Probabilmente nessun altro sarebbe stato in grado di scriverlo. Questa è la sua prima apparizione negli Stati Uniti.

 

Come ci si sente a essere un uomo con due teste? O meglio, come ci si sente a essere due uomini con un corpo? Forse possiamo dirvelo. Stiamo scrivendo questo - anche se sono io, Robert, che al momento è sveglio - poiché ci è stato richiesto di riferirvi come ci si sente a vivere nella pelle che un altro essere umano abita e perché dobbiamo dire la nostra.

Io sono Robert. Il nome di mio fratello è James. Il nostro cognome adottivo è Self... senza alcuna invenzione da parte nostra, anche se questo nome sembra irridere le circostanze della nostra vita. James e io chiamiamo il nostro corpo il Mostro. Chi sia a possedere il Mostro è un problema che ha occupato molta parte del nostro tempo, in virtù della necessità di una camicia di forza. In più di una occasione il Mostro ci ha quasi ucciso, ma ora lo abbiamo abbastanza addomesticato.

James Self. Robert Self. E il Mostro.

È piuttosto tardi. James, che siede dalla parte destra delle nostre spalle, si è addormentato da parecchio, lasciandomi il controllo. Comunque, mio fratello ha soggiogato il Mostro più efficacemente di me. Quando lui è sveglio, ci muoviamo con un'agilità felina che io non riesco mai a raggiungere. Sebbene il nostro tono muscolare e il vigore siano eccellenti, quando sono sveglio il Mostro rabbrividisce sotto la mia guida, cammina con passo strascicato, e sposta degli ingranaggi anatomici che non mi ero mai accorto di possedere. Con sei piedi e tre pollici d'altezza, io sono un uomo corpulento, mentre James con i suoi sei piedi e quattro pollici - è più alto di me alle tempie - è di aspetto gradevole. E condividiamo lo stesso corpo.

Come risultato, James spesso mi sovrasta durante il giorno: io mi sento, allora, come un invalido intelligente che fa giri di perlustrazione nelle braccia di un gentile giocatore di football. A tarda notte, però, con James addormentato e il Mostro sistemato in modo rilassato su una poltrona di pelle, anch'io posso assaporare il potenziale animale dei nostri arti, il calore di un buon vino nel nostro stomaco, e il solleticamento di un'eccitazione sessuale risolvibile privatamente. Con il Mostro si può convivere.

Ma sto correndo troppo. Fatemi raccontare come abbiamo intrapreso questa strada, cosa ci aspettiamo, e perché perseveriamo.

James e io nascemmo in uno stato del sud-est nel 1951 (il nostro segno zodiacale sono i Gemelli, anche se nessuno di noi dà credito all'astrologia). Un parto podalico, ci fu detto. Penso che posizionammo prima il nostro sedere perché non sapevamo come determinare la precedenza dalla parte opposta. Fummo estratti con il forcipe, e l'emergere di James e Robert insieme, due perfette teste da neonato, stordite dall'anestetico generale che avevano dato a nostra madre, fece radunare l'équipe di ostetrici in una bianca riunione, dalla quale ci guardavano con paura, scetticismo, timore, e incredulità. Come era possibile aspettarselo? Un neonato con due teste ha solo un battito cardiaco da misurare, e non c'erano stati raggi x.

Fummo fatti sparire dalla sala parto prima che nostra madre potesse riprendersi e chiedere di noi. Il medico che presiedeva, il Dr. Larimer Self, ordinò poi di dirle che il suo bambino era nato morto. Self distrusse la registrazione della nostra nascita, fece giurare il silenzio al suo staff, e procurò al mio padre biologico, un ambulante che andava in giro per i raccolti delle pesche e del cotone, una raccomandazione per un lavoro nel Texas. In questo modo, il nostro ostetrico divenne nostro padre. E i nostri veri genitori furono, per noi, perduti per sempre.

Larimer Self era un autocrate... ma sentimentale. Fece crescere James e me in un isolamento virtuale in una piccola comunità a diciassette miglia dall'ospedale dove eravamo nati, che serviva tre province. Ci affidò, durante la giornata, alle cure di una donna nera di nome Velma Bymer. Crescemmo in una casa a due piani circondata da cespugli di agrifoglio, mirto e alberi di noce americana. Due o tre mesi fa, dopo aver raggiunto una nomea - oppure un'infamia - di cui potete già essere a conoscenza, tagliammo tutti i collegamenti con il mondo esterno e ritornammo in questa grande casa vecchia di ottant'anni. Né Robert né io sappiamo quando decideremo di lasciarla di nuovo; è l'unica vera casa che abbiamo mai avuto.

Velma era troppo vecchia per farci da balia, e per di più era nubile, ma ci allattò artificialmente tra le sue braccia, stando attenta ad alternare le poppate tra la testa di Robert e la mia, affinché non prendessimo il latte in polvere nello stesso tempo.

Aveva quarantasei anni quando cominciò ad avere cura di noi, e fin dall'inizio ci considerò non come una maledizione per la propria sterilità ma come un sacro compito. Una ricompensa per la sua pietà. I miei ricordi di lei si concentrano sulle sue mani rosse, ossute, e su una voce simile all'acqua dolce che scorre sulle rocce.